martedì 27 dicembre 2011

Sapori gustati e altri immaginati

Il liquorino al caffè dell'equo e solidale che ho in bocca mi fa ripensare ai buoninuovi sapori che mi si sono sventagliati intorno in questi ultimi giorni.
Primo da ricordare è il sapore dell'anguilla arrosto, questo pesce grasso e saporito cotto sul "fogone" come lo chiamano i miei zii di Fano.
Semplice, col limone, è da mangiare con le mani per riuscire a pulire bene la piccola ossatura all'interno. Cibo vigiliesco.

Secondo sapore insolito è un sapore immaginato, presentito diciamo. La ricetta dei datteri ripieni di mascarpone e noci consigliatami da un'amica. La metterò in atto? Non lo so, però tutto ciò mi ha dato un'iniezione di sud.

Il sapore precedente mi ha fatto inspiegabilmente venire voglia di un altro piatto, un po' meno meridionale. Così la sera me la sono presa: la pizza al gorgonzola! Lo so, non c'entra molto con i datteri mascarpone-noci, ma mi sono improvvisamente ricordata di fies, del campeggio, di gianlu che mi ha detto: prova questo mix, pizza gorgonzola e noci. Una delizia..
Perché associo il mascarpone al gorgonzola? Non ne ho idea, ma tante immagini per una sola acquolina in bocca. La pizza l'ho mangiata allo storico ristorante C'era una volta a Pesaro che, oltre a essere accogliente, e a offrire delle pizze giganti e buonissime, ha il gran pregio di restare aperto fino a tardi, anche dopo il cinema, quando si ha più fame che sonno.

Ritorno così a questi liquorini al caffè, provenienti da uno dei cesti di Natale (che bello regalare cesti!). Sono morbidi e il sapore di nocciola e di caffè forma tutta una crema senza pezzettini, per un cioccolatino spesso come una piccola montagna.
Il caffè da solo non lo prendo (che italiana insolita), però nei dolci lo uso e lo gusto, perché è meraviglioso.
Buoni gusti!

domenica 18 dicembre 2011

complainte di dicembre

Ogni sera, cosa fare
il calore resettare
srotolarsi sul lenzuolo
come morbido raviolo
Fare pace con il tempo
Fare rima con il lampo
Come questo, ventitr'anni
Tranne i giorni che ho passato
Fuori casa, o senza letto
Abbracciata ad un sonetto
Triste smania dicembrina
Fuori il tossir della brina
Sto normal-bighellonando in un intruglio
Che cos'altro potrei fare?
sono nata in luglio.

sabato 17 dicembre 2011

Transparent

Deux rêves,
Liés comme deux seins sur les paupières des anges
Et la poussière des astres
Me pousse à redire une bouffonne
trilogie:
oui,
non,
deux fois oui.
Et je perds la transparence des actes
libre: du liquide dans une cage
oui,
non,
deux fois oui.

Noi,
Soli senza specie
Che spingiamo un felice natale alle porte matte
Della seduce-nza, della mella cara-
Dell'alieno benessere
Una sfida per chiedersi:
Cosa faccio?
Perché faccio?

Deux rêves, chacun pour un pays.
Pas nécessaire (un pas nécessaire!) de regarder les autres
Mieux c'est d'écouter des chansons
Peut-être.

martedì 6 dicembre 2011

Dentro la notte lo spirito è attorniato, dopo un breve svuotamento di solitudine, in una poesia ho di nuovo fame. Si sveglia l'anima mia.
Bizzarra questa fame che prende esempio dall'illusione della notte.
La scienza è così deludente.

Ho avuto, in te, cari sfoghi di corpo. Per sempre lo ricorderò.
Tra un sorriso e l'altro delle passeggiate normali
Commerci di gente senza perché e senza sguardo.
La parola e il riverso.

La scienza è così deludente, e poche le persone che incontro
Perché incontro così pochi? Perché i visi sono sempre diversi
E non riempiono, non sono amici.

Sbagliato, sono ancora io,
Non evolvo non cambio
Finché non lo decide la mia mente.
Smetti, e svuota la scrivania.
Importante è vivere nascosti
Finché questa mia fronte non scoppi
Ho per te racconti migliori
Piacevoli come rime, non lugubri
Come questi vomiti.

Mi sono detta taci, ho fatto spazio
alla mia scrivania.
Ma ora che taccio, ora che c'è spazio
Non posso ancora smettere
Corro come se fossi un'anima nuda.

Le donne ancora mi attaccano panni addosso
Ma dove la trovo una rassegna stampa
Per i sogni semplici come questa parola:
Emozioni.
E se ancora non bastano cosa dirò
Agli spaziosi floreali gesti della dama
Vestita senza perdono e senza luce.

E quando anche la morte mi conduce
Tutti i fiori secchi attorno a me
Paiono prendere nuovi luciori
Nuove spugne di sapore.

Posso ancora comporre la mia tela
Che se ne andrà senza di me.

lunedì 5 dicembre 2011

Je gage

Je gage, monsieur le Ridicule. Gage-t-on?
Je gage qu'il n'y a eu d'existentialisme, en France,
Qu'a cause de ce "h" devant le mot: humanité.

Je gage encore, si vous permettez.
Je gage que ce qu'on ne gagne pas en argent
On le gagne en vie, en choix, en idées.

Je gage qu'il n'y aura pas d'enfant
Dans des mots trop vieillis
Et qu'on souffle pas la vérité
avec de la démocratie.

Je gage que la religion
C'est un fait acquis et que
Comme tous les faits acquis
Elle rassemble millions
d’hypocrisies.

Là, je risque.
Je gage que moi
Je resterais assise
Et que dans cette position
Je fairais du sexe avec le monde entier
Avec ma pensée, des paroles sèches.
Et des idées mouillées.

giovedì 1 dicembre 2011

Il faisait nuit

Il faisait nuit, le géant farouche ouvrit grand les volets derrière lesquelles l'enfant dormait, comme s'ils étaient l'emballage d'un sandwich très savoureux.
Il tournoya les yeux, puis il le vit. La nuit derrière répandait le bleu clair qui dénonce la pleine lune.
Il faisait rentrer ses doigt voraces à travers la fenêtre, quand tout à coup l'enfant se réveilla. Sans aucune peur l'enfant se mit debout sur son lit et regarda le géant dans l' œil droit.
Le géant disparut presque immédiatement sous ce regard.
Alors l'enfant satisfait s'allongea sur son lit, sa nuit ne fut plus dérangée.
Maintenant l'enfant est adulte, il doute d'avoir vu le géant, et il regarde dans la nuit vide la lune sur son œil droit.
"Qu'a-tu fais de lui?" Il semble demander, inquisiteur.

Ce qui reste

Que le hasard soit génie,
Que ma main marque le sable
Dans les consciences d'autrui.

Je veux devenir homme,
et puis devenir poète,
Quel bizarre trajet
Pour un triste métier.

Je sens dans mille poches
Des courtes flammes qui piquent.
Et si je pose ma roche
Sur l'océan des briques

Mille oiseaux qui chantent
Aux papillons gelés
(La neige de la montagne ne saurait pas toucher)
Repoussant de mille parts

M’empêchent de rester.
L'art qui va et vient, c'est mon Iphigénie.
Les mots qui vont mourir
Je les habille en fête.

Quelle peine à rassembler
Sans sentir la folie
Les sens qui vont s'enfuir
Aux noces qui habitent ma tête.
Qu'ils aillent écrire funestes
Sur le tombeau qui me reste :
« Voilà ce petit corps,
mort de mots, défiant de son sort.»

À Berlusconi

Idole idiot,
je te laisse
cette grêle promesse
de futurs cachots.

Ou bien, l'exile
napoléonien
Pour qu'on en soit certain :
T'es toi-même ta prison, imbécile.

Moi, je n'ai jamais mis
Sur mon âme indécis
Ton méprisable sillon.

Je n'ai pas de force
Pour suivre sans soucis
La pâle écorce de « Ton » Italie.

Sonetto del 1840 di de Musset (pubblicato più tardi col titolo "Tristesse") trad. di E.Della Martire

Perdei la forza e la vita
E i miei amici e la mia allegria;
Perdei persin la fierezza
Che faceva credere al mio genio.

Conosciuta la Verità
Credetti che fosse un'amica
Quando l'ebbi compresa e sentita
Mi aveva già disgustato.

Ed essa tuttavia è eterna,
Coloro che rinunciarono a lei
Di quaggiù hanno ignorato tutto.

Dio parla, bisogna che gli si risponda.
Il solo bene che mi resti al mondo
è di avere, qualche volta, pianto.

mercoledì 30 novembre 2011

martedì 29 novembre 2011

Il mendicante (Victor Hugo) traduit par E. Della Martire

Un pover'uomo tra la brina e il vento passava
Battei sul mio vetro; lo vidi che aspettava
alla mia porta, che aprii civilmente.
Gli asini riportavano dal mercato la gente
Dei campi in groppa, accovacciata sui basti.
Era il vecchio che vive in una nicchia in fondo
alla salita, e sogna, aspettando, fuori dal mondo,
Un raggio del cielo triste, della terra i dorati resti,
Per l'uomo tendendo le mani, cingendole per Dio.
"Venga a scaldarsi un poco." Gli gridai io.
Come si chiama?" Mi disse: "Mi chiamo
Il povero." Gli presi la mano "Entri, brav'uomo."
Gli feci portare una scodella di latte.
Il vegliardo tremava di freddo; parlava di nuovo,
E gli rispondevo, pensoso e senza ascoltare.
"Il suo abito è bagnato, andiamolo ad appoggiare
Davanti al camino." Si avvicinò al fuoco.
Del suo mantello, mangiato dai vermi, ne restava poco,
un tempo blu, sparso ampiamente sulla calda fornace,
La luce di brace spizzicava mille buchi,
Copriva il focolare mio, e sembrava un cielo nero stellato.
E, mentre seccava quello straccio desolato
Dal quale scorreva la pioggia e l'acqua degli scoli,
Pensavo che quest'uomo fosse pieno di preghiere,
E guardavo, sordo alle nostre chiacchiere,
Il suo saio, tinto di costellazioni.

Riflessioni notturne (proprio necessarie, sìsì..)

Non mi piacciono i Cupcakes.

Invitanti solo esteriormente, non hanno niente di quello che cerco in un dolce:
La condivisione (è così individualista...)
La sorpresa (ti aspetti qualcosa di dolce e burroso e, inevitabilmente, lo avrai)
La genuinità (sembrano finti)
L'attesa dell'invito "Vuoi un'altra fetta di torta?" o "un altro biscotto?" diventa l'attesa di "Vuoi un altro Cupcake?" (che non prenderai, perché uno è troppo completo in sè, e due sono troppi)

Uff...vuoi mettere con quelle torte giganti (non per forza rétro) che si mettono al centro della tavola e dove la prima ditata guasta tutto con dolcezza, commettendo la blasfemìa più bella che ci sia?

lunedì 28 novembre 2011

Sono lì, a quella piccola finestra
E l'aereo non spappola la stella che attraversa
La luna, questa piccola clitemnestra
Ha ucciso la luce suo agamennone
E pulsa adesso come un organo umano inerte.
Nel buio, suo miglior demone
Pascola come gli adepti d'un nuovo credo
Sono lì, (tante volte vedo me che vedo)
Come loro sfilo la processione dei corpi stanchi
E il mio sonno attende un attimo il salto
Di tutti quei passanti immaginari in banchi
Di nebbie adatte a sogni di basalto
Sul primo noctilien che non fa mai troppo tardi.
In alto il sacro cuore, organo anch'esso
Ritira il chiarore lunare e si fa più spesso.
Più reale il suo cranio affusolato
Più reale il turista dal Cristo abbracciato
Che ha smesso di credere e adesso ama soltanto l'arte.

domenica 27 novembre 2011


Giorno di mercato in Place Edith Piaf

sabato 26 novembre 2011

Pesaro II

Pesaro, ho speso e spargo
Riposo sopportabile.
I salmi del porto instabile
E il gelato nel pomeriggio letargo.
Spasmi da caffè e coop a mezzogiorno
Ricerche di solitudine per i moletti
Pensando al troppo traffico di ritorno
Persino il Plastic, la forma dei tetti
Le pizze a un euro al mare e la piada
Ordinata come si chiedono le vocali
A una classe delle elementari.
Torneresti ben presto al tuo posto
Se ti chiedessero: vuoi le ali?
Pesaro agosto e sorpreso non vedo
Chi riconosco, vedo un travestito appeso
A un casolare del posto.
Vedo le foto di un niente che è stato
Ma è stato, e non hai risposto. E ancora ti infili
Seduti all'ingresso del duomo
Per rivendicare il rieccheggiar dolce di via rossini.

mercoledì 23 novembre 2011

"L'automne" di Alphonse de Lamartine (trad. da E.Della Martire)

Ciao, boschi coronati d'un avanzo di verde,
Fogliame che sull'erba sparsa ingiallisce!
Ciao, ultimi bei giorni ! Il lutto della natura
Conviene al dolore e piace ai miei sguardi.

Seguo d'un passo sognante il sentiero solitario;
Amo rivedere ancora, per l'ultima volta,
Questo sole in via di pallore, la cui flebile luce
Fora appena ai miei piedi l'oscurità dei boschi,

Sì, in questi giorni d'autunno in cui la natura spira,
Nei suoi sguardi velati mi sento più attratto;
É l'addio di un amico, è l'ultimo sorriso
Dalle labbra che la morte chiuderà per sempre.

Così, pronto a lasciare l'orizzonte di vita
Piangendo la speranza dei miei lunghi giorni svanita
Mi volto ancora, e con sguardo voglioso
Contemplo i suoi beni che io non gustai.

Terra, sole, vallate, bella e dolce natura,
Le devo una lacrima ai bordi della mia bara ;
L'aria è così profumata ! La luce è così pura !
Per un morto che guarda, il sole è così bello !

Vorrei adesso vuotare fino all'ultimo
Questo calice mescolato di nettare e di fiele :
Sul fondo di questa coppa da dove bevevo la vita
Che resti una goccia di miele ?

Che un ritorno di felicità, la cui speranza è perduta,
Il futuro me lo conservi ancora ?
Che nella folla un'anima che ignoro
Avesse compreso la mia anima, e mi avesse risposto ?....

Il fiore cade sprigionando allo zefiro i suoi profumi;
Alla vita, al sole, sono questi i suoi addii;
Quanto a me, io muoio; e la mia anima, nel momento di spirare
Si esala come un suono triste e melodioso.

sabato 19 novembre 2011

"La voix" di Charles Baudelaire trad. da E.Della Martire

La mia culla si addossava alla biblioteca Babele oscura in cui romanzo, scienza, favola, Tutto, la cenere latina e la polvere greca, si mischiavano. Ero alto quanto un in-folio. Due voci mi parlavano. L'una, insidiosa e ferma, diceva: "La Terra è una torta piena di dolcezza; posso, (e il tuo piacere sarebbe allora senza fine!) fare in te un appetito altrettanto immenso."
E l'altra: "Vieni! oh! vieni a viaggiare nei sogni. Al di là del possibile, al di là del conosciuto!"
Ed essa cantava come il vento dei lidi,
Fantasma ululante, venuto da chissà dove, Che carezza l'orecchio eppure lo spaventa.
Ti risposi: "Sì! Dolce voce! E' da allora che data ciò che si può ahimè! chiamare la mia piaga e la mia fatalità. Dietro ai decori dell'esistenza, nel più nero fondo dell'abisso, vedo distintamente dei mondi singolari e, della mia chiaroveggenza estatica la vittima, Trascino dei serpenti che mi mordono le scarpe. Ed è da allora che, simile ai profeti, amo così teneramente il deserto e il mare; che rido nei lutti e piango alle feste, e trovo un gusto soave nel vino più amaro; che prendo molto spesso i fatti per delle menzogne, e che, gli occhi rivolti al cielo, cado nei buchi.
Ma la Voce mi consola e dice: conserva i tuoi sogni; i saggi non ne hanno di tanto belli quanto i folli.

venerdì 18 novembre 2011

No, non ci riesco...

Vorrei scrivere qualcosa
Che lasci un sottointeso
Grande come una russa prosa
Ma senza alcun peso.

Una rosa che in fondo alle spine porti
Lo spazio per un dito che porgi spaurito
In quell'attimo voglio scrivere
Della goccia di sangue.

Ma è solo troppo discinta la mia mente
Come sparata da un aereo intelligente
Non v'è altro che parola nella stiva
Di questa nave, tonda, promettente e cattiva.

giovedì 10 novembre 2011

I have no dreams (e quindi minni futtu!)

Punghiri 2

A Parigi tutti i posti distano mezz'ora. Non me ne sono mai spiegata il motivo, eppure abito in una banlieue..
I parigini fanno l'effetto di un "genitore creativo", apparentemente disinteressato, con alle spalle chissà quali radici straniere, offre opportunità stimolanti senza averne l'aria, ti tratta affettuosamente se ti vede convinto, ti ride adosso se incespichi. Rincorre il progresso e si controlla da solo, spesso insolente, combatte per il gusto di farlo.
Non è un ritratto aderente a qualsiasi persona, sia chiaro, ma è l'impressione di un'italiana con metà dell'istruzione superiore, curiosa e volenterosa. Dispersiva e pronta ad assorbire. Non credo diventerò mai un parigino ma lo reciterò, in un racconto o in un teatro o tutte le volte che dovrò interpretare un ruolo.

punghiri vorrei dormirli ma vogliono essere scritti

Parigi è stata disegnata da una ragazzina sovrappensiero durante una lezione noiosa.
Ho passato l'ora del tramonto a guardare il cielo, da un po' non succedeva...
Aux Jardins des Tuileries.
Je lisais Paris
Derrière un livre de Jean-Pierre Martinet
Que je vais traduire..Peut-être, si j'ai envie.
Poi è venuto il più pestifero della classe, ha strappato la pagina, ci ha fatto un aeroplano e l'ha lanciato fuori dalla finestra.
L'aeroplano è andato a finire su un albero, sull'albero è passato un giorno di pioggia,
che ne ha informato la terra..
Così nasce Paris, le grand escargot.

Landscape in Pantin (France)

mercoledì 2 novembre 2011

Scrivo molto, forse per evitare di addormentarmi e fare sogni come quello di ieri notte. Sono contenta di non scrivere a nessuno in particolare e di non impormi a nessuno in particolare. A qualcuno ci si rivolge sempre, certo.
Ma non sono in vena di fare riflessioni e d'altronde non ne sono neanche tanto capace. Ho un paio di cuffie gialle, traccia dell'autobus a due piani che gira per Parigi.
Tra una spiegazione turistica e l'altra danno canzoni come pasticche, e sempre quelle.
Ma il giro è bello e ancora di più perché ripensandoci mi ricordo della mia famiglia venuta a trovarmi.
Spero che qualcuno che non conosco un giorno mi scriva da un paese che non conosco, una frase nuova in una lingua che non conosco.
Ho in mente una sceneggiatura ma è qualcosa che più difficile da rappresentare non c'è.
Quindi la prendo con celia, sto bene di stomaco, ho mangiato solo una zuppa e una carota per cena, ma poi qualche biscotto e l'immancabile tazza di tè.
Eheh..no, non è il tè che non mi fa dormire. Era deteinato.
Semplicemente è che mi sento popolata. Avete mai l'impressione che qualcosa debba uscire da voi? E allora scrivo. E tendo a non declinare, solo ad assaggiare ricordi e momenti, come quella volta che ho osservato di soppiatto in un locale sulla spiaggia i genitori di un ex compagno di liceo cantare battisti come ragazzini.
So già questo: quel qualcuno che non conosco sarò io stessa, tra qualche decina di anni, qualche lingua in più e qualche significato in meno.
merde...la tristesse..

Novembre

Novembre dove le tenebre si colorano
Vedo un ragazzo col cappello, sempre quello
Ad aspettare l'autobus da mezz'ora.
Fingo di non guardare, dondolo, mi guarda.

C'è come una magia che danza.
Sempre macchine e luci elettriche e pozzanghere
Ma dentro il cappotto sono diversa.
Mi viene voglia di gettarmi in mezzo al traffico
Novembre titubante mi afferra il polso.

Lui è sempre saggio e piagnone,
I parchi lasciano ottobre con la voglia di abbassare
Il colore del fogliame.
Stiamo stretti a casa ad una tazza calda
Di un tè che è come un autodafè
Un romanzo si cela sul suo fumo
Novembre e la luna e il soffitto e il tuono.

Pesaro

Pesaro, riparo e peso.
Nascondi i tuoi genitori
In case normali, sul mare.
Pesaro, odori d'acqua e di
Fontane dure come teste assopite
Pesaro, fendi i tuoi colpi a vuoto
Nelle tue strade pur sempre invitanti
Quando le luci e i suoni fanno blackout.
Pesaro, ripensarti mi è inutile
Ma ti cerco come giro di accordi futile.
Ti ho conosciuta nelle facce
Che ora abitano altrove.
Ti ho conosciuta in quelli
che non si muoveranno mai.
Riservi il tuo schifo e il tuo candore
A quelli che ti guardano a distanza
Ma è facile non chiedersi al ritorno.
Ritorno come sono, dentro te.
Malata e con una voglia di andarmene.

Descrizioni precoci

Mi tiro fuori col bisturi
Un eurodisneyland di sogni
Perché sono obbligata
Vanno su e giù come caramelle in un cappello.
Un due tre! Scegli.
Preferisci quella mou o quella alla menta?

Mi tiro fuori con le braccia
una catarsi di ricordi
Di nuovo perché sono obbligata
E su ogni ricordo che sfugge
Ricamo una fantasia.
Questo dev'essere genetico.

Poi mi tiro fuori una donna,
Questo è divertente, una donna
Che non si pettina spesso che sorride
dolcemente e sa scoccare
La freccia e trafigge il centro dell'attimo.

Ha una lente di ingrandimento, una bussola
E dice che va per pianeti lontani.
Ma a che serve la bussola in pianeti lontani?
Lei vi dirà che è per buttarla giù
Nello spazio infinito.
Più movimentato di una tromba d'aria.

Vivono tanti esserini semplici
Saranno i clienti di quell'eurodisneyland
A loro ci tengo sì, prima che finiscano
In scaffali illuminati da luce elettrica.

martedì 1 novembre 2011

Tu sei lì e ti sbaglio
Sei nel soffio e ti tradisco
Proprio adesso che diventi poesia
Non ti fermo.

Nello specchio sei ancora un po' me
Mi credi lontana, è solo che guardiamo
dalla parte opposta.
Tu sei lì, sento la tua schiena

So che respiri ancora
E mi leggi e mi giudichi
Ma non voglio nemmeno adesso definirti.
Tu mi ascolti e io ti canto.

Mi tieni stretta contro il muro liscio
Condanna dolce sentire ancora il mio corpo.
Non hai gambe strisci come un serpente
Pensavo di averti lasciato indietro, nei ricordi.

Non sei un demone del cuor mio, non lo sei
Intendo solo i tuoi richiami e non i miei
sintomi, di tutto che sbagliato si scolora
Non posso dire chi sei.

Forse sei un istrice che si stende sul mio corpo
Ogni spina è un chiodo o forse
Sono sempre troppo tragica.
Non è semplice ascoltare una nuvola
Che passa.


Una luce corolla il tuo ciglio
Ma il naturalismo è troppo di facile effetto
E la mia mente troppo selvaggia.
Lo so ti ho trascurato
Uomo che non ebbi mai,
Ma friggimi tra le tue braccia
Se hai ancora delle braccia
E se l'olio bollente è meno insopportabile
Dei fiumi di parole.

domenica 30 ottobre 2011

per Totò, con gratitudine

Un dolce nel forno sbruciacchia
La poeta, essa, ridacchia
Che fa, se tutto la sforacchia?
Fa i suoi esercizi di ginnastica.

Uno, due, le dita fanno fatica
tre, quattro, continua tradizione antica
Tutto ciò che per lei è fantasia
E' un ammasso di noia per la casa natìa.
Che fa, se tutto la siddìa?

Fa i giri di valzer del Leopardi
Una strofa, una rima, poi
Si fa tardi, qualcosa si crina.
Vuole esprimersi ancora, vuole i suoi

Rami d'alloro, e allora gli occhi leggono,
le mani con loro. Trova, per caso, un dono.
Non è perch'abbia un sopraffino naso,
o un orecchio buono. E' solo il caso.

Sogghigna. La musa la rincigna
Così per qualche attimo sincero
non è più un anatroccolo nero
Nella torva umanità.

Nell'ironia, nella perfetta malattia
Ignora del forno la cavità
Dove da ore una torta ormai stantìa
S'annerisce e si disfà.

sabato 29 ottobre 2011

Metafore farcite

Se apprezzassimo ciò che la vita ci dà già di autentico, senza per forza volere un altro precotto...cercare per divertirci dei conflitti che non c'erano prima, sfumando presto nel calderone tutte le nostre carte di plastica, che a bruciare puzzano ma bruciano, bruciano.
Come i cuochi fuori dal loro ristorante sentono lontano un miglio il suono della forchetta che sbatte le uova così i poeti sentono lontano un miglio il tintinnìo di un cuore che si spezza, sfottò di tutte le esperienze e le cosiddette "idee" precedenti che si infrangono e il cuore ritorna carne tagliata facilmente da una scheggia di ossidiana, che già così sembra il nome di una bella ragazza.

Ma anche questa ricerca della felicità non è più nulla, lo sguardo perfetto è quello della macchina, anzi della macchina da presa.



E.Munch nu parisien 1896

Arthur H - Cheval de Feu

Le sculpteur aveugle - Arthur H.

venerdì 21 ottobre 2011

parole

Non c'è nave che passi da una lingua all'altra senza affondare, i limiti sono così frastagliati che un traduttore dev'essere esperto nelle piccole scorciatoie alternative.
Il pericolo è di riconsegnare un'opera brutta, relativamente alle altre opere dell'autore dissonante e dissonante anche all'orecchio del più debole dei lettori.
Il nome del traduttore viene cercato più che altro per criticarlo, raramente per lodarlo, quindi allerta! Il lavoro del traduttore si struttura su due livelli principali:
1.Rendere il testo comprensibile e bello per coloro che non possono accedere all'originale, incuriosirli e spingerli ad approfondire.
2.Strizzare l'occhio a coloro che l'originale lo conoscono, e sbizzarrirsi ma sempre umilmente e coscientemente, come solo i poeti sanno fare.

Solo i poeti infatti trattano la lingua da innamorati. I traduttori di mestiere che però non sono poeti possono porsi da sposi, ma non saranno mai cavalier serventi, ed è davvero una fortuna che i cavalieri serventi non possano sposare se non raramente la dama che amano.

Il lavoro giusto sarebbe tuttavia garantito, suppongo, da un lavoro comune tra il traduttore di mestiere e il poeta, ma siccome il poeta non tende spesso a collaborare docilmente, il mondo si riempirà ancora per molto di cattive traduzioni dalle quali esala un costante senso di secchezza. Ammesso che non si parli di poeti che abbiano studiato (e che sappiano gestire alla pari con la vena poetica) anche la traduzione, ma è sempre difficile parlare di questo tipo di schizofrenia, perché sul genio c'è poco da dire.

La mia non è propriamente una critica, dev'esserci un senso, un profumo, in poche traduzioni e non in tutte, così potremo sempre orientarci e assorbire il sublime che sta dentro al senso della misura.

Anche la rabbia o la nausea per una cattiva traduzione deve spingere chi le percepisce a correggere il tiro, a donare un'alternativa, come una specie di wikipedia del pensiero, un format aperto, un teatro civico, un...
Mi vien da dire uno psicodramma, a questo punto, perché la filologia e la parola in particolare sono vere forme di nevrosi.

mercoledì 19 ottobre 2011

filastrocca

Giocare a palla
Contro una luna gialla
Fondare il sole
Su spiedini di titanica mole
Leccare il miele
Che esce da quei buchini
Per assaporare
l'addormentare breve dei bambini.

sabato 15 ottobre 2011

Ti stavo aspettando e
Per aspettare ho scritto una poesia
Per non fare uno sbaglio
Ho scritto una poesia riflessiva
Per non tremare di pazzia.

Tutto ciò che mi equilibra
gronda fuori dalla mia bocca
Ho nel petto come una valvola che vibra
E sono indefinita per chi non mi tocca.

Questo è il mio verso e la mia tavolozza
Tutto in me mi insegue, e se dimenticassi
Di cercarmi, il trucco cadrebbe
Come nel fiume cadono i sassi.

Se dimenticassi di conoscere i miei fianchi
Oppure la parte giocosa delle mie mani
Sarei lì lo stesso, ma oliosa,
Non credo che tutti riuscirebbero a vedermi

Cadrei come un vestito tinto di rosa
Sull'acqua che un tempo dava vita
A una città silente e lieve e coraggiosa.

martedì 11 ottobre 2011

E' il lutto che ci muove
dissero le spogliarelliste.
E i loro piccoli reggicalze
Scollano, mentre le lingue farfalle
Scorrono e tutti prendono versi
Perdono sensi insomma
S(u)ono di nuovo vuoti felici.

Perché il poeta non riesce
Appartato da quel mondo che risogna?
Ti basta solo un po' sbirciare
i bulbi dei piccoli seni,
I gusci delle loro gambe dove danzano
Di più,
Perché tu poeta non riesci?
Intrappolato nel crederti bello
Non sapresti seguire un ombelico
con un palmo di naso.

profughi

Bluastre
Sono le navi cariche di terra
Di uomini rinfacciati dalla guerra
A sua madre il sole
che poco ha di madre se non
Il bruciore.
E lei, la guerra lo vede dormire
dopo averci allettati, noi mortali
rimboccatoci le coperte, si vede
Non ci crede neanche
A quel suo rotolarci in faccia.
Pensa la guerra.
Ma è lei che non capisce
Come sia possibile amarci.
Così pieni di terra
nelle case tristi galleggianti.

venerdì 30 settembre 2011

atri bui

Il mare come una musa scontrosa rigetta tutte le poesie che trova, siano esse tronchi, reti, sassi e vetri. Il mare più grosso è dentro di me, lo guardo come una bambina da dietro un vetro appannato. Ci sono carezze alle quali non è giusto sottrarsi.
Raccolgo con il pane lo sciroppo d'acero rimasto nel piatto. C'è in me un po' del quadrupede, ho due zampe al mare e due in montagna, la montagna dalla quale la mattina presto vedevo e bevevo senza dormire.
Bevevo liquido rosa dell'alba, a stomaco vuoto, un sapore che non posso più sentire adesso. Le zampe che erano al mare invece nuotavano già, come se cercassero tra i vestiti di una bancarella, spostando l'acqua e rinnovando il disordine.
Fatico a trovare quella forma che sembrava adatta a me, forse posso fare tutto, forse non dovrei fare niente. Anche il poco asfalto che mi slanciava giù dalla piccola montagna appenninica, un colle piuttosto, oppure la mente mi si confonde, e ritornano i colli dell'altra mia vita, ritorna il mio viso che ho imparato a truccare, a impiastricciare, anche l'asfalto sembrava armonioso.
Come dentro a volte appaiono le durezze del carattere, quelle tanto insegnate. Ma chi ha il coraggio di deprecarle? Sono queste che ci salvano, persino dal linguaggio. Ci salvano però senza torpore.

giovedì 29 settembre 2011


Ὁ βίος βραχύς, ἡ δὲ τέχνη μακρή, ὁ δὲ καιρὸς ὀξύς, ἡ δὲ πεῖρα σφαλερή, ἡ δὲ κρίσις χαλεπή

(Ippocrate)

Vita brevis, ars longa, occasio praeceps, experimentum periculosum, iudicium difficile

domenica 18 settembre 2011

Addio, cosa sogno cos'è questa moda di vivere
Che bandiera sventola sulla tua faccia
Il fresco sapere. Mi addormento
In mezzo alle bare e ancora sogno
In mezzo al cemento armato.
Ma non durerà per sempre questo
Per me.

venerdì 9 settembre 2011

Nascita (E. Della Martire)

Passo in mezzo ai filari di uva
La notte è spaventata dalla luna
Il décolleté delle stelle si sporge mentre guardano
Questi grossi chicchi che a descriverli
già li bevo.
Ho tormentato mia madre nel suo ventre, poi lei
si è addormentata.
Allora un sogno è passato piano piano
Come un bicchiere tiepido alle labbra.
Ho visto qualche goccia su di lei, così rossa
e nell'allegrezza del vino decisi:
sarei nata.

Consolatrice (E.Della Martire)

Gola secca donna greca
piena di miglio saraceno
Troppo ho guardato la tua femminilità
E mi sono illusa guardando.
Da dove viene il sogno che ricevo
tutte le notti.
Sei tu la madre delle veggenti?
E nel tuo sguardo semplice
Nei panni stesi, non nascondi
un mal di Sicilia?
Viva le tue mani ballerine
Che tolgono i miei problemi
e l'infinità delle parole mie
Contro una tazza di caffè corto.

Aprile nella città lasciata (Elisa Della Martire)

Vìola l'aprile la viola
I fiori bandiere di dimenticanza
agli ubriachi che si perdon tra le giostre
sfarfallano addosso, e unge
l'oscurità dei mendicanti assetati
Addosso ai marciapiedi come
giacche a vento sgonfie.

Tutti i palazzi, i guardaroba addormentati
E i baffi e le stanze calde con i sigari
Ma soprattutto i libri protetti ed accucciati
Di qualche professore in fieri.
Ma fuori, chi spia dalla finestra
è una sconosciuta, oggi
E tutte le sconosciute che di notte
girano sono sole sembrano prostitute
Perché ti chiedi: dove va tanta bellezza
Sprecata?
Ed hai capito la fossa delle Marianne.

C'è il capitolo dei bambini:
il crocevia dei sogni soufflè
A pieni polmoni. Lì ti piace
Allentare il passo e ti ricordi di te
E non c'è mai letteratura di troppo nell'infanzia
I tuoi ricordi sono vapori di draghi
ormai non esistono, forse solo poco.
Finché qualcuno non li percepisce e ci crede.

Per una volta provi a entrare in quella porta,
che passandoci trovavi sempre aperta
Nell'aria si rilascia il tuo stato depravato
dolce delicato ladro di coccole buie.

Passi davanti alla pasticceria
E di nuovo l'odore di donne ti sembra niente
I dolciumi appena sfornati penetrano già il tuo corpo
Ma vedi non bastano le tue monetine,
bisogna entrarci senza scomporsi
In quel posto di esploratori.
Il cartoccio bianco e profumato
ricorda tua madre e un piccolo insegnamento.

Poi giungi alla piazza l'inizio del percorso domestico
Verso una camminata che sembra appartenerti
La luce è ormai sviata dai secondini
di quelle gabbie profonde. Tutti gli uccelli
che corrono cantano la vita anche qui.
Cantano a nome delle formiche e
degli spaventosi ratti che si nascondono.

Ti accorgi che sei una delle forme di vita
E torni a casa geloso le punta delle dita
Sfrigolanti di non sai ancora cosa
Ci bevi sopra acqua di fontana
Che trovi più scialba di una volta.
Cade un po' di zucchero a velo
E tu sali al portone di casa.

lunedì 1 agosto 2011

Co l'è 'n poeta?

Co' l'è 'n poeta?
Un poeta l'è 'n faniènt'.
L'è acsè tant faniènt'
Ch'el fa 'n'otre lavor.
L'otre giorne 'a so gita al mer,
E a'm guardeva intorne.
Di poeti, manc l'ombra.
Pro dop' un snior se avicinèd.
E 'l m'a det:
Est-ce que je peux m'assoir auprès de vous, mademoiselle?
Me a n'ho capit niènt,
Ma'l dveva essa propri 'n poeta
A l'ho guardet profundament'
Lo el s'è mes a seda vcein.
El m'ha guardet com s'fussi la madona
L'era propri 'n poeta.

domenica 19 giugno 2011

A quelle voci in cui si lassa il mondo
Come sfrattato dalla matassa delle parche
E tutto s'addormenta, tutto s'adopra
Per sugger del mediocre la specialità
A quelli che si cercano nel sito
e allo specchio si spaventano.
Poi a quelli ancora dalle vere emozioni
Cuori sfranti a non finire.
C'è un sorriso cattivo, che è il drago
E dice di piacersi nella massa
Anche a coloro che non vorrebbero
Averci a che fare. Il tempo
è arrivato agli sgoccioli
e prende a calci le grondaie.
Non vi lascerò a quelle voci
Amanti, rasserenatevi.

venerdì 17 giugno 2011

lunedì 13 giugno 2011

Corvo

è arrivato il corvo
Il corvo cerca il gatto
o l'animale sfatto
il corvo cerca l'albero
l'albero tagliato
il corvo cerca il prato
se l'è dimenticato
Lui cerca qualche occhio
Per essere guardato
Cerca cose bizzare
In fondo come lui
Cerca il nero lume
Cerca scimitarre che taglino di più
Del lusso affusolato delle piume.
Cosa cerca, il malvagio?
Della morte l'adagio
Del sonno il potere
Passato il piacere.
O cerca di non sapere?
Si getta dentro i fossi
come una bugia
E noi che mastichiamo
la sua mitologia.
In posti ora lontani
Non se ne vedon spesso
di questi uccelli strani
Tanto quanto adesso
E se il cortile affonda
Se tutta la gioconda
dai topi è morsicata
Se il dio sceglie la Senna
per condir l'insalata
Se fa d' un boulevard un covo
Del Louvre sua moglie
E del bois de Boulogne un rovo
E poi fa di Parigi
l'amante transessuale
Spargerà fino alle Figi
Quest'intrepido animale.
Diranno che il colore,
Nato dal fondale
Guasta delle corone
Il candore floreale.
Useranno i loro becchi
Per segnare i derelitti
E le piume per incidere
Il più assurdo tra gli scritti.

mercoledì 8 giugno 2011

La cornonna

C'era una volta una vecchia che portava sempre un enorme fazzoletto arrotolato sulla testa.
Si diceva che fosse per coprire qualcosa di segreto e di spaventoso, eppure la vecchia conduceva una vita normale, senza particolari eccezioni.
Un giorno spolverando i ripiani della cucina una bottiglia ricolma d'olio d'oliva cadde in pezzi, e l'olio si versò.
Si fece una chiazza larga sul pavimento e la vecchia, cercando uno straccio per pulire il danno, scivolò.
Tutti i suoi nipoti accorsero per vedere cosa fosse quel rumore, e trovarono la donna a terra, il nodo al fazzoletto che aveva attorno alla testa sciolto.
Con gran stupore videro sulla testa della nonna per la prima volta due belle corna pelose come quelle di un muflone. Sporgevano grigie e dure, appuntite come forchette.
La nonna fu costretta a raccontare nei giorni seguenti, mentre si riprendeva a letto dalla brutta caduta, tutta la storia di come le fossero spuntate quelle corna.
Raccontò che ogni volta che accumulava rimpianto per le cose che avrebbe volto fare e che non aveva fatto, rancore verso gli altri, oppure noia, quelle corna le si irrobustivano.
Aveva avuto sempre molta cura di nasconderle, per paura che tutti capissero come fosse misera e penosa la sua vita.
Diceva che la sua creatività, non essendosi potuta esprimere, per colpa della vigliaccheria, in altri modi, aveva prodotto quel paio di corna ben forgiate e solide.
Ora la nonna era troppo vecchia per riparare a tutte le sue occasioni perdute, a tutti i suoi amori lasciati per sempre, a tutti gli incontri a cui aveva rinunciato, a tutte le terre che non aveva visto.
Le corna del rancore erano lì sempre più pesanti, a ricordarle com'era andata realmente la sua vita.
Nemmeno parlarne serviva ad alleviare quel peso.
Un giorno però, il nipotino più piccolo, quello che voleva andare dalla nonna più spesso, si avvicinò a quella testa così bizzarra, a quel viso quasi mitologico dagli occhi perenni di chi era stato smascherato, si avvicinò fino quasi a toccarla e disse:

« Nonna, ho trovato il modo. »
« Davvero, piccino? Dimmi. » disse la nonna, che si era giurata di non perdere mai più un'occasione, e di non essere più così cinica e fredda come era stata.

« Devi cercare di immaginare con tutta la tua forza una cosa così potente da sconfiggere tutto. »
« Non funziona » disse la nonna, e le corna scintillarono nel buio. « Sono diventata ormai una persona arida e noiosa, non posso immaginare una cosa tanto forte. »

« Io lo so che in fondo sei tanto buona. Non lo possono fare gli altri per te, devi essere tu stessa. »
E così dicendo il bambino se ne andò.
La nonna rimase sola nella stanza con lo scricchiolìo delle molle del letto.
« Cosa inventare? Cosa immaginare? » pensava la nonna non proprio sicura che l'idea potesse funzionare.
Pensò a tutta la sua vita ma le vennero in mente tutte cose normali, alle quali col tempo si era abituata a pensare.
Il suo matrimonio non era stato poi una festa e il lavoro le aveva tolto in seguito il tempo di pensare. I figli erano venuti senza particolare illuminazione e che li avesse cresciuti era semplicemente nel suo istinto.
Si avvicinava sempre di più al presente, e sapeva che sarebbe andata sempre peggio, così risalì col pensiero a quando era bambina, ma le vennero in mente solo ricordi poco sensazionali.
Ricordi nei quali rifiutava di partecipare ad un'attivita extra-scolastica perché la scuola era lontana da casa, o quando rifiutava di proporsi per la lettura pubblica di un proprio tema per la paura di essere criticata dagli altri.
Si immaginò infine come sarebbe andata la sua vita se fosse avvenuta anche solo una piccola deviazione, chessò, un figlio disabile, oppure avere un naso tanto orribile da non trovare marito, o una professoressa di religione che la facesse appassionare alla vita da convento.
Tutto sarebbe stato meglio rispetto a quello che era diventata in realtà: un'arida nonnetta sugli 80 anni, senza molti argomenti interessanti di cui parlare, quasi analfabeta, con qualche acciacco ma in generale in buona salute, con dei nipotini ai quali era costretta di fare da baby sitter, che cucinava i pasti della tradizione con molta più malavoglia di un tempo ad una famiglia di stressati e ingrati caproni.
Cosa avrebbe immaginato, d'altro? Immaginò se stessa che portava i fiori alla tomba del suo defunto marito, solo all'inizio perché poi aveva trovato scuse per non farlo, vide la faccia arcigna dell'uomo nella fotografia, poi vide la sua propria faccia in una futura foto mortuaria, e quelle corna.
Si sbirciò nello specchio per la prima volta liberamente, senza timore che qualcono potesse entrare, perché già tutti sapevano.
Quelle corna erano anche affascinanti, avevano un che di potente, di sovversivo. In fondo, quello avrebbe potuto essere il punto di partenza per la sua immaginazione.
Erano a ben guardare l'unica cosa insolita e speciale che le fosse mai capitata in vita, proprio a lei e solo a lei.
Si vide dapprima su un campo da pascolo a sgranocchiare dell'erba, con dei figli mezzi umani e mezzi quadrupedi, che le pascolavano attorno. Una risata come un singhiozzo leggero le sfuggì.
Poi, siccome ci prendeva gusto, immaginò sé stessa sorvolare di notte le case e le fabbriche con una scopa e una bella coda rossa, e far scivolare grosse bottiglie piene di olio dai camini rimanendo ad ascoltare ogni volta il « crash! » spaventoso.
Questa immaginazione la prese talmente che cominciò a dimenarsi, e più si muoveva più le corna le pulsavano. Ora era come la prima volta che erano spuntate, solo due leggeri dolori circolari dietro le orecchie.
Penso poi a un circo in cui a lei toccava sfidare un toro ad incornate, pensò a restare inavvertitamente incastrata per le corna alla torre Eiffel, ed altre immaginazioni insensate, alle quali da quella che sembrava un'eternità non si era più riuscita ad abbandonare.
Pensò tanto che aveva male alla testa e, in una giravolta soltanto, le corna erano sparite.
Nell'aria zuccherina del mattino venne a trovarla di nuovo il nipote prediletto, che le fece tante feste e congratulazioni.
« Ho capito, per stavolta. » gli disse, « Ma dovrò tenermi allenata, per impedire che ricompaiano. »
Il bambino annuì, e la nonna gli fece una carezza sul capo.

venerdì 20 maggio 2011

Accordéon

Accordéon

Ho gettato in terra l'accordéon
come getto in terra un pensiero
essere poeta per davvero
Che celia, eppure è quel che sono
Ma non esiste in questo plattisfero
Una corrispondenza a questo suono:
Poeta, ma di che vado in cerca
Una riconoscenza?
Sono nata in questo modo, come storpia
E se morirò di getto come scrivo
nessuno noterà la differenza.
Forse una suora pia
Sentendomi cantare
Le ultime confessioni in rima
Potrà rivendicare
E con un panno molle
Che va da fondo in cima
Mi pulirà da quelle
Mie ultime parole.
Così io me ne andrò, col mio strale
di lettera di verso di vocale
Insieme a quelli vicini e distanti
Che, poeti inesistenti,
Saran mie consonanti.
Ma allegri che lo stesso lo strumento
Si stringe e si riallarga con il vento
E stuzzica che stuzzica lo sento
Di smetter di suonar non è contento.

buffa sepoltura

Ho visto le tue unghie, e il nero loro dentro
Che scavano la terra per seppellire il vento
La fossa era quadrata la scatola ci stava
Ma dentro c'era il niente che ridendo ti aspettava
Che cosa poi hai imparato scavando quella fossa?
Non più di me che intanto ti guardavo commossa.

Cercami

Corri dietro a lui sorriso del mio gorgoglio
non lo perdere neanche adesso quel tuo viso d'imbroglio
ritaglia i tuoi origami come sempre lungo il fiume
fai scorrere i tuoi piani di famiglia e di marciume.

Cammina dietro al vecchio a passi nudi di annoiato
non perdere il suo ritmo da legnetto strofinato
aceta la tua noia col quintale di paura
e pensa che ogni storia quando è viva sembra pura.

Striscia poi così il mento sulla terra
Dove scoprirai quella norma che ti afferra
Vienimi a cercar nel cimiter di francobolli
Non perder la speranza che il vapore tuo mi scolli.

Non perder la speranza che il vapore tuo mi scolli.

mercoledì 4 maggio 2011

lunedì 2 maggio 2011

il panino


Il mio panino con porchetta pesarese e formaggio francese.

Per sopravvivere

Per sopravvivere devi restare
da sola
almeno un'ora a meditare
Quando la luce è al crepuscolo
Su una panchina, se sei in città
Su una radice, se sei in campagna.
Spesso un buon libro
può aiutare
Ad alta voce
Prova a narrare.

giovedì 28 aprile 2011

Caparezza - Kevin Spacey

Milano

Aspettai che la macchina finisse di incanalarsi dietro alle altre che si erano già fermate al semaforo, poi io, libera pedone, saltai il muretto e attraversai. Dopo i cinque piani di scale del numero 47 aprii l'ennesima porta e lo vidi, il corridoio profumato con fiori di carta e con un messaggio per la vecchia proprietaria.
Era lì che avrei abitato.
Avanzando potei scorgere tra le stanze buie la porta della mia camera da letto, come indicato dalla pianta dell'appartamento. Quello a fianco era il bagno. Ci doveva essere ancora una cucina e la stanza del coinquilino ma, dubitando su quale delle due porte fosse cosa mi tolsi le scarpe e procedetti fino alla mia stanza, stanca dal viaggio.
Volli mettere il mio spazzolino nel bicchiere del bagno, anche per far segno al mio coinquilino che ero arrivata.
Poi calpestai il tappeto morbidissimo e caddi addormentata su di esso, perché non avevo ancora trasferito il letto.
La mattina dopo non ebbi l'energia per svegliarmi al suono del campanello, ma sentii una voce grugnante e un corpo che camminava fino alla porta d'ingresso.
La luce che veniva dal pianerottolo doveva averlo svegliato definitivamente, e all'improvviso si fece gentile. "Ah, zietta...." "Entra, ti apettavo qui la prossima primavera. Perché così presto." Il suo accento era nuovo.
Qualcuno entrò in casa e si aprirono le finestre cosicché un po' di luce mi svegliò, inquieta.
Mi sentivo un po' intrusa e a disagio, come se mi fossi intrufolata in casa d'altri.
Decisi di fingere di dormire ancora un po', ma mi tirai sopra una coperta, per pudore.
Qualcuno parlava piano, in un'altra stanza, sarebbe stato impercettibile se io non avessi tutti i sensi all'erta, ancora impregnati di notte, o se non avessi dormito nemmeno le poche ore in treno.
Passarono i minuti e non si sentivano rumori, ma non potevo più dormire e iniziai a sbirciare nella penombra, per la prima volta, che aspetto avesse la mia stanza.
Ero decisa a spalancare la finestra quando qualcuno si avvicinò. Sentii ancora la voce del coinquilino, poi silenzio e poi, d'una voce turbinosa come acqua di torrente:

" Io ti leggo, stanza vuota, e non ti temo.
Tu mi dici le menzogne, tu mi dici le bisogne
Della vita le sorgenti e il fondo estremo."

Mi sembrava di stare sognando.
"Zietta, vieni, torna a prendere il tuo tè...Stavolta ascoltami." diceva il coinquilino, ma la zia:
"Aspetta, sento che non è vuota."
"Che cosa dici?"
"Non è vuota, ti dico!"
Allora il coinquilino accese l'interruttore e illuminò la mia faccia piena di stupore, coi capelli ritti dallo spavento, e il mio corpo in piedi inerme.
I due stettero per un po' fermi e muti, poi il coinquilino, un bel bruno dai capelli spettinati e un pigiama a pantaloncini verde disse alla zia, una donna anziana quanto il mondo vestita in modo semplice e con l'espressione sicura di sè.
"Ah, mi scusi, lei deve essere la nuova coinquilina." Poi, senza aspettare la mia risposta chiuse la porta, come se niente fosse.
Mentre la zia faceva il giro di tutte le altre stanze recitando le sue formure il ragazzo cercava di distoglierla e di riportarla in cucina.
Io non ero più spaventata, ma un po' divertita dalla scena a cui avevo assistito, nella quale d'altra parte non ero passata per la più squinternata tra tutti loro, o si?
Alzai le serrande e giocherellai con le maniglie dei cassetti, pensando a chi potesse essere quella donna, magari un'antica megera del sud-italia, che continuava a concedere i suoi servizi alle ricche famiglie superstiziose, o magari era veramente sua zia, uscita da un ospedale psichiatrico con qualche rotella in meno.
Ciò che mi tranquillizzava era la cura e l'affetto col quale il giovane sembrava trattarla, senza nemmeno un pizzico di scherno. Voleva dire che era un tipo gentile.
Svuotai la valigia dopo essere sgattaiolata in bagno, le mattonelle di quella stanza erano blu, mentre i muri della mia nitidamente bianchi.
Una volta lavata, vestita e profumata bussai alla porta dietro la quale dovevano essere i due.
Prima di sentire alcun tipo di risposta sentii la signora bisbigliare, non tanto a bassa voce: "Te l'ho detto che sarebbe venuta lei."
"Entri pure", disse lui finalmente, insieme all'esotico "Trasite, trasite" della donna.
Apparve una cucina allegra, con qualche tazza da lavare, con dei vasetti di basilico alla finestra, e un enorme vaso che si vedeva nel terrazzo. A giudicare dalla caraffa di tè quasi vuota non erano alla prima tazzina, e un altro po' d'acqua bolliva in un pentolino.
Sorrisi spontaneamente.
"Scusate se prima vi ho spaventati, è che sono arrivata stanotte.."
"Occupare una stanza non ancora interrogata, che idea..." disse la vecchia.
Chiesi educatamente cosa intendesse e il ragazzo mi fece segno di sedermi, dove c'era già una tazza piena di tè fumante ad aspettarmi. Quando l'aveva versato? Non l'avevo visto, prima.
"Io sono Fabrizio, questa è Irene, mia zia da Palermo. Non è proprio una vera zia, ma è come se lo fosse."
"Io sono Cristina, piacere"
La signora Irene soffiò sul suo te, ridendo sotto i baffi, mentre io ero come congelata dentro gli occhi di Fabrizio e prendendo una sorsata troppo rapida mi scottai.
"La zietta viene a trovarmi a volte, mi dà tanti utili consigli, ed è convinta che le stanze le rivelino segreti, soprattutto quelle vuote. Per la verità non conosco ancora tutti i suoi poteri" disse Fabrizio.
Cristina rise, pensando che fosse una battuta, ma Fabrizio la guardò serio e lei non fece altre domande.
"Bella questa cucina! Anche la camera mi piace, è arredata con mobili di legno."
"Li ho fatti io" disse il coinquilino. "Sono falegname." La frangetta gli coprì all'improvviso gli occhi.
"Oltre a studiare alla Bocconi?" Dissi io, stupita.
Fabrizio si mise a ridere.
"Il falegname lo faccio meglio dello studente."
Sarebbe stata una conversazione normale, se non ci fosse stata la vecchia. Un concentrato di lampi e tuoni uniti ad un sorrisino da gatta paffutella.
Fabrizio se ne rese conto, e disse:
"La zia viene di solito a primavera, preferisce il clima mite, e tutto il resto dell'anno sta in sicilia."
"Anche tu sei siciliano? Ti posso dare del tu?"
Fabrizio tacque qualche secondo, come sempre, poi disse.
"Mi puoi dare del tu. Sì, sono siciliano."
Mi misi a giocherellare con un pezzetto di fil di ferro che c'era sulla tovaglia, imbarazzata.
"Io me ne vado" disse la signora Irene con una voce stridente. "Mi aspettano a San Lorenzo". Si alzò, prese la sua borsa verde e si diresse verso la porta.
Fabrizio con calma posò la tazzina col tè che sembrava non finire mai e la seguì. Io feci altrettanto, più per curiosità che per cortesia.
Zia e nipote acquisiti si abbracciarono e poi io le tesi la mano, "Piacere."
Lei mi tese una bottiglietta con un liquido marrone, dall'odore sembrava liquore al cioccolato.
"Tienilo, ti servirà." Disse, e uscì scendendo le scale, senza darmi il tempo di ringraziarla.
"Grazie" dissi io ad una mosca sul pianerottolo. Poi vidi che Fabrizio se ne era andato, tornai in cucina e lo vidi. La finestra del terrazzo era spalancata, e lui mi invitava a venire vicino.
"Questo è l'angolo più bello della casa." E mi indicò una coppia di piccioni che tubava sul tetto di una casa piena di comignoli, e poi tutti gli altri tetti e poi il campanile di una chiesa che si perdeva in lontananza, e poi la bruma, e poi Milano, la grande cipolla, che fumava come una caraffa di tè.

martedì 19 aprile 2011

domenica 17 aprile 2011

sabato 16 aprile 2011

Momus - I want you, but I don't need you.

I pesci di Hida



L'acqua si è seccata come una chewing gum americana, è rimasto solo un piccolo fiotto per far vivere la fantasia dei turisti. Ma un tempo ogni casa aveva il suo bacino, la sua vena, e qualsiasi persona del villaggio che approdasse a casa nostra veniva servita prima di tutto di un'abbondante caraffa. Noi bambini andavamo a riempirla, a gruppetti perché da soli era troppo pesante.
A casa mia si beveva molto, di mattina il succo di prugna freddo, nella pausa di lavoro gli adulti bevevano thè alla mandorla o al gelsomino, e la sera sempre una tazza di acqua pura, che i grandi spesso allungavano col sakè.
Ma il fiume non serviva solo per sopravvivere, ci si poteva navigare, o far navigare i nostri giocattoli di legno o di canna intagliata.
La mamma era diventata specialista nel lavare i panni senza gettare prodotti tossici nel fiume, glielo aveva insegnato il nonno, chimico esperto che aveva studiato a Tokio ed era anche andato in Europa.
Qualche sera ci parlava dell'Europa, delle grandi capitali e dei piccoli paesi come il nostro. Diceva che viaggiare era come ricominciare ogni volta da zero, come ritornare neonato. Ti metti persino a balbettare come un lattante perché non sai la lingua. Il nonno ha studiato tanto, su tanti libri. Ma lui ci ha detto che i libri non sono sufficienti per imparare, ed è per questo che noi gente di Hida avevamo il fiume.
Dal fiume ricevevamo benefici e noi dovevamo rispettarlo. Mia madre a volte la sera pregava rivolta alle acque e mio nonno non era contento. Diceva: "il nostro fiume dà già tutto sè stesso, che cosa gli domandi ancora?".
La mamma diceva che era solo per ringraziarlo ma io sapevo che quando il nonno era malato lei aveva domandato al fiume che non morisse.
Ora quando apro una bottiglia d'acqua mi chiedo che fine ha fatto quel fiume, dove sono le carpe colorate, dov'è la sorgente e dov'è il tempo. Forse è più sicuro chiudere l'acqua in queste bottiglie, forse siamo destinati a bere per sempre distillato di plastica, e a nuotare nelle nostre vasche da bagno.
Il sogno che ho fatto parlava di una famiglia di pesci, preoccupati perché un qualche parente era finito affumicato. Solo che i pesci parlavano e camminavano fuori dall'acqua. All'improvviso è arrivata un'onda gigantesca, gialla, li ha ricoperti tutti e loro sono morti soffocati. Una bambina-pesce riuscì a nuotare, nuotava con tutta la forza recitando delle formule magiche. Allora riapparve la riva e gli alberi di mandorlo, e mia madre che guarda lontano a me che sto sull'altra riva.
Da tempo sono emigrata. Ho una famiglia e adotto una lingua straniera. Ieri alla televisione ho visto il mio paesino che non c'era più, dei nomi di persone disperse scorrevano in sovraimpressione e, nelle poche immagini, delle carpe morte riempivano il fiume. Ho avuto un malore, la bottiglia che avevo in mano è caduta e tutta l'acqua si è versata sul pavimento. Quando mi sono risvegliata ero tutta bagnata stesa sul pavimento, e con le braccia mi misi istintivamente a nuotare, come facevo da bambina.

venerdì 15 aprile 2011

straniera

La stazione del métro che odorava di gabinetto oggi odora di disinfettante alla ciliegia.
Non ci puoi passare se hai già il mal di stomaco. C'è qualcosa nell'aria della place carrée di Les Halles nei giorni di cielo azzurro. Uno penserebbe al mare, ai grandi viali alberati. Ad uno verrebbe voglia di Berlino e della sua Unter den Linden.
Non so perché faccio questi accostamenti. Quanto è lontano il mare.
Ma vado presto a raggiungerlo, dopo l' aspra e vanitosa milano. Devo passare a vedere la mostra di Arcimboldo, credo.
Vorrei scavare della sabbia, dove è più bagnata, a quest'ora di aprile, quando in spiaggia c'è forse qualcuno che suona la chitarra, qualche straniero.
E poi camminare e camminare finché le stelle non sbocciano come una musica di miles davis, finché una festa ricopre la tua pelle fresca, e i battiti del cuore si infittiscono. Le so usare le parole, ma ora ho proprio male allo stomaco.

giovedì 14 aprile 2011

Le chant d'Isis, la traditrice

Non, c'est pas vrai, c'est pas si facile que ça. Tu ne m'a pas eue. D'accord je le suivais, d'accord je l'ai pris par la manche.
J'étais contente, il m'a embrassée.
Je ne suis pas auprès de lui comme une chienne, je suis pas genre "je suis ton épagnole, Démétrius!" et tout ça.
Mais, surtout, je ne suis pas allée le chercher parce que j'ai peur de la solitude. Et ce que je nie je le nie. Et la preuve en soit que je suis déjà fiancée. Oui, fiancée. Oui, fais chier, je sais, genre: c'est quoi ce truc? Oui, mais voila, c'est ça.
C'est pas facile, je l'aime. Non, pas lui, pas mon fiancé. Je l'aime, l'autre. Oui, lui. C'est pas mon but dans la vie d’être amoureuse des gens. Je suis censée être une actrice, ou quoi que ce soit.
Non, vraiment moi je ne cherche rien. C'est le tout qui me trouve.
Qu'est-ce que je ferai avec mon fiancé? Je vais être sans pitié, je vais le garder avec moi, jusqu'à ce que le sadisme même va s'éclater. Oui, je suis le pire des monstres.
Mais c'est trop tard, il m'a laissée. Mon fiancé. Il m'a laissée avant même que je puisse me montrer à lui. Je le regarde. Il me regarde. Je le vois. C'est tout. Cupidon ailé m'a donné un dernier soupir de lui-même. La force va se transformer en passé et je ne reconnaîtrais plus cupidon parmi tous les abeilles du monde.
Je le hais. Non, pas celui-là, pas mon ancien fiancé. Pas l'autre non plus. Mais cupidon, oh qu'est-ce que je le hais! Et je suis désespérée.

lunedì 11 aprile 2011

lunedì 4 aprile 2011

guardar nuvole

Guardare le nuvole insieme
Solleticate, di tanto in tanto
Bucherellate, come i biglietti
del diretto per firenze
come i ricordi dell'infanzia
lo sono di boffe e di sberleffe.
E poi come le carezze
che servono a medicare.
Guardatele, ballare!
Ma, soprattutto, senza paura
e con una bella fecondità di propositi
inesorabilmente e sfuggenti alla cattura
cambiare.

domenica 3 aprile 2011

gioco del posto sperduto

Crespino del Lamone
Cremino nel limone
Contino di terrore
Cretino Narratore
Respiro dell'Amore
Gressino col salmone
Crestino dell'attore
Confino del Torpore

dalla tecnica alla vita passando per una bomba a mano





Numeri
Numeri primi
Numeri / Reali
Numeri trottanti
Numeri Rimari
Numeri Astrali
Numeri acquattati
Numeri a strati
Numeri crema
Numeri affettati
Numeri innumerevoli
Numeri senzatetto
Numeri come non detto
Numeri ricci
friccìa poipoi
cros me oioi
Tikatikabum
suletica trepampa trepampa
taico se taico se
stintistintistintistinti
trop
rop
op
p

venerdì 1 aprile 2011

triste brezza

Mi alzai per quella giornata, volevo spremerla come un pomodoro maturo. Nel cielo un po' brumoso, mentre la primavera è calda e folle, i resti impercettibili dell'ennesima nube tossica entravano dentro il corpo.
Il posto in cui la vidi, mentre attorniavo la sua panchina con fare incerto e con le mani in tasca, era quello giusto. Le presi la mano e le chiesi di danzare.
Mai persona al mondo fu cosi' leggiadra, cosi' antica, e mai mi era venuta cosi' voglia di avvicinarmi al suo corsetto proibito, per annusarla.
Per finire si distese sul selciato intorno alla fontana, aveva i piedi nudi.
Dentro la mia testa quella specie di svenimento dell' incompiuto, e sentivo uno strano bruciore al naso.
Frugai dentro la tasca dei miei pantaloni e trovai un fazzoletto grigio, senza poesie scritte sopra.
Mi soffiai il naso e dentro il fazzoletto un fiotto rosso esplose come un fulmine. Come tratteggiate le gocce di sangue cadevano sul viso e poi al suolo, e allora mi pulii la bocca e anche dalla bocca usci' del sangue.
Mi appoggiai stremato a terra, come a voler prendere la posizione distesa, ma lei mi prese ancora per danzare di nuovo.
Il suo braccio si appoggio' ad un incavo della mia schiena che non avevo mai visto dal vero, nemmeno in foto. Cercai di fermarla ma era gia' troppo tardi, mi stava strappando un pezzo di carne, sempre continuando a danzare.
Danzammo tanto da poterne sentire la musica, quella musica straziante come una mutilazione, poi ci fermammo ad odorare le margherite.
Il loro polline saliva fino al mio cervello, credo, lei mi parlava senza muovere il volto, come una maschera funeraria.
Volli tornare sui miei passi prima che il suo ballo mi finisse completamente, ma non mi riuscii a discostare e, capendo che era giunta la mia ora, le insegnavo ad uccidermi con gentilezza.
Il suo tono di voce era afoso e non era una brava allieva, ma danzava, mio dio, come danzava...
Credo che non me ne andassi perché ero preso da tutto cio' che di forestiero c'era in lei, di foresto, di buio. Non me ne andavo, no, e per fare cosa?
Avrei più sentito il suono delle margherite che entravano una dentro l'altra?
Ma poi il tempo si esauri' e mia moglie mi ando' a riporre, come tutti gli anni, in quella che era da vent'anni la mia bara.

mercoledì 30 marzo 2011

elipoppins

Ray Ventura et son Orchestre - Le nez de Cléopâtre (1938)

terremotata

Firenze un sottoscala fumoso mitigato dai colori del tramonto.
Oggi un gatto appollaiato, Ray Ventura nello stereo, un fantasticare ottimista soprattutto dovuto al lavoro che la piccola Arielle doveva fare sulla Gioconda.
Canzoni per bambini.
Mattino a disegnare labirinti sempre per i bambini, e a colorare mandala.
agghiacciante la mia confusionaria, gioiosa e giocosa propensione mentre il mio spirito gela e fonde, mentre la mia mente è così piena di speranze inascoltate, di scelte, di terremoti.

sabato 26 marzo 2011

La cosa più forte

Non è il rancore
Non è l'amore
Non è il terrore
è...la gratitudine.

Non è la fede
Non è il dispetto
Non è la confusione.

è...la gratitudine.

Non è il pane
Non è l'acqua
Non è la sapienza

è la gratitudine

Non è il teletrasporto
Non è la vita eterna
Non è la pietra filosofale

è la gratitudine

Non è il viaggio da solo
Non è la manifestazione in gruppo
Non è desiderio carnale

è la gratitudine

Non è l'arte
Non è lo snobismo
Non è l'insicurezza

è la gratitudine

Non è una poesia
Non è una pipa
Non è un sogno

è la gratitudine.

lunedì 21 marzo 2011

fuori..e dentro



Sono qui

Parigi. Un cane costruito con mattoncini di plastica colorata da un bambino con non ancora abbastanza "puppy-points" per permetterselo mi guarda da terra.
Un giorno la riproduzione vivente di questa creatura caccerà per sempre i mostri dalla sua stanza.
Una sgradevole pompa di calore in una giornata estiva ma non abbastanza calda. Un pianoforte che mi ricorda lo stacco dal mondo, con sopra un orologio che mi ricorda l'appuntamento all'università.
Tutto è assurdo ed allo stesso tempo tenero e cortese.
Il contatore di elettricità misura l'elettricità, i bicchieri celesti sono rangés uno dentro l'altro in una credenza dipinta di giallo.
I dubbi si intridono e si elasticizzano ed i libri di cucina inglese-francese si succedono sullo scaffale en donnant envie di cimentarsi.
Resterò un altro anno? Non resterò un altro anno? Sarò pronta a farlo da sola? Se non provo il pensiero di non averlo fatto mi farà sopravvivere?
tout le monde peut pas s'appeler durand

mercoledì 16 marzo 2011

L'assoluto con due forchette.

Ero all'ora in cui le lancette si baciano, in un bistro fumoso con il giornale in mano in una scena proprio céliniana.
Ero con Sybille, donna fragile e grande ascoltatrice di storie.
Lei non mi avrebbe mai parlato di razza tra un bicchiere ed un'articolo di giornale, come d'altronde io non sarei mai corsa ad arruolarmi in Place de Clichy. A pensarci bene non parlava molto, ed io giocavo con la mia quiche sbruciacchiata sul fondo.
Ero giovane, e non temevo le discussioni sconclusionate nelle quali anzi mi consideravo abile. Avrei potuto riempirne una dispensa, farne un menù.
La giornata ci portò a parlare dell'assoluto. Io non ci credo, mi affrettai subito a specificare, non posso, se l'assoluto ci fosse non ci sarebbe libertà.
Vedi, prendi questo piatto. Ci sono due forchette e un coltello. Ora, io sono l'assoluto, prendo il coltello, ecco. Taglio un pezzo di quiche. Tu hai solo la forchetta, non puoi tagliartene un pezzo, io posso, ecco. Vedi? E ne tagliai un pezzo per lei.
Dunque se ci fosse l'assoluto non ci sarebbe la libertà. Metto questo coltello qui, così entrambe possiamo giocare ad essere assoluto, ma per un momento solo. Poi il coltello si poggia e ricomincia la condivisione, la relatività, la relazione insomma.
I suoi occhi erano sereni e le sopracciglia si inarcarono leggermente, quando di soppiatto prese il pezzo più grosso della quiche con la mano e ne staccò un morso.
Quel morso, non lo scorderò mai. Ognuno è molto originale nelle sue follie, quindi perché non seguirsi come si segue piano piano un romanzo, riga dopo riga. Sybille era lei che diceva: ma perché continui a scrivere quel tuo blog? Conservati un po' di argomenti e segreti per i nostri bellissimi dialoghi.
Forse sognavo, ma credetti di vederla voltarsi ad osservare un'altra donna, la sigaretta volteggiante al ritmo della gonna, il sole che le faceva brillare gli occhi piccolini. Allora mi alzai, misi a posto la sedia e feci per andarmene. Ma le sue mani mi presero un pezzo di jeans, ci mettemmo a ridere e ritombai al mio posto, trepidante di possibilità in quel lunghissimo pomeriggio.

martedì 8 marzo 2011

L'effondrement de la ville de Paris (Momo Kapor) traduit par Elisa Della Martire à partir de la traduction française de Madelaine Stevanov.

Quando la città di Parigi sprofondò.

Era chiaro alla prima occhiata che il professor Vojislav non fosse dei nostri, né della nostra città.
Giorno e notte potevate trovare nelle tasche della sua giacca un fazzoletto bianco come un velo e, per le vacanze scolastiche, faceva i bagagli e partiva per Parigi, da dove ritornava poi smagrito e pallido d'emozione.
Era una curiosità rara in una città in cui la gente non partiva se non eccezionalmente, tranne che per andare ai bagni.
Il professor Berbeski era, si sarebbe detto, totalmente assorbito dalla città di Parigi.
Ecco perché non reagiva quando, vedendolo passare nel suo abito elegante i ragazzacci della notte gridavano "Pederasta!". Ci parlava del Café de Flore, di Picasso, con il quale era migliore amico, e lo chiamava "mon ami Pablito", del Quai des Tournelles vicino alla Senna, dell'organo di César Franck e del calvados ai "Deux Magots", della cioccolata calda che beveva a la Coupole, di Juliette Greco e di mille meraviglie inaudite, per poi aggiungere, con un gesto della mano:
"Signori, è ora che ritorniamo al nostro povero sciancato Vuk per la qual cosa oltretutto vengo pagato nel vostro borgo pittoresco che puzza d'acquavite a basso grado alcolico e di grigliate."
Ecco il professor Vojislav N. Berberski!
Si fermava tra i banchi e sferrava uno schiaffetto sul cranio rasato di fresco di Pufko, solo per il gusto di sentir risuonare un volgare cranio balcanico e Pufko si sentiva particolarmente lusingato che il professore avesse scelto la sua testa e non un'altra!
Era il tempo delle vacanze invernali e, come suo solito, il professore partì per Parigi. Era per noi meno penoso sopportare l'eterna passeggiata serale nel Corso e l'unico film in programmazione per quindici giorni perché conoscevamo qualcuno per il quale andare a Parigi era altrettanto semplice che per noi andare al mercato.
Mi ricordo che quell'inverno avevo i palmi tagliuzzati dalle gabbie d'imballaggio metalliche piene di bottiglie di latte, che noi distribuivamo ai piani, Pufko e io.
Un giorno, quattordici giorni dopo la partenza del professore, ricevemmo una cartolina da Parigi, con i Bouquinistes sul bordo della Senna.
Una frase pomposa diceva:
Sono sulla terrazza de la Rotonde e mi riposo dalla patria. V.N. Berberski. P.S.= ritorno tra una decina di giorni.
L'indomani ci cambiarono di settore e fummo incaricati della via Skerlìc, dal numero 10 al 23.
E quale stupore quando, come fatto uscire di fretta da un sonno durato cinque anni, da dietro una porta che aveva sull'etichetta il nome di un altro, vedemmo uscire come un topo dal suo buco il professor Berbeski in persona!
Il suo viso sempre rasato di fresco era stavolta coperto da una barba di quindici giorni, stranamente brizzolata.
Il figlio di Parigi era in piedi davanti a noi in un pigiama sporco e sgualcito, a piedi nudi sul cemento.
- Allora vi siete immaginato tutto? gridò Pufko rispingendo Berbeski nella miserabile piccola camera piena di conserve di goulash vuote e di croste di pane.
In mezzo a questo guazzabuglio oscillavano, come fantasmi appesi al soffitto, gli abiti eleganti del professore imballati in protezioni di plastica.
- Allora Parigi non esiste? Né Juliette Greco, né i bouquinistes, né tutta questa merda?
Con un gesto febbrile il professore cercò di stringere attorno a lui il pigiama a righe al quale mancavano tutti i bottoni e che scopriva una pancia bianca con qualche rotolino e delle livide gambe pelose.
Fuori di sè, urlando, Pufko continuava a scuoterlo fino a rispingerlo accanto al letto, dove il falso parigino si fermò.
Preso da una violenta agitazione, Pufko gli sputò in faccia tutto, che aveva creduto ciecamente che ci sarebbe arrivato, lui, un giorno, fino a questa città di Parigi, e tutto il resto, mentre lui - amico personale di Picasso - si rimpinzava tranquillamente di gulash riscaldato in via Skerlic e lo lasciava, lui Pufko, senza la minima prospettiva di uscirsene un giorno da quel buco, e non solo lui ma ogni altro ragazzo della nostra classe!
- Per l'amor del cielo, signori! Supplicava Berberski, stropicciandosi il pigiama. La padrona di casa vi sentirà! Calmatevi! Prendete una sigaretta! Prendete, anche se come professore non dovrei...prendete, non vergognatevi...
Le sigarette cadevano dalla scatola scossa freneticamente.
Ci sedemmo sul suo letto sfatto e ci accendemmo ciascuno una Drava, che ricordava al nostro professore le Gitanes, parole sue.
Avevamo l'aria proprio miserabile, circondati da posaceneri debordanti in cui dei mozziconi emergevano dalle ceneri della città di Parigi.
Siamo rimasti là cinque minuti o duecento anni, non so più ben dirlo, pensando al nostro caro professore.
Il suo guardaroba stravagante e la sua eterna solitudine gli valevano l'antipatia di tutta la città, presa dall'irritazione impotente che è quella del toro che si abbatte ciecamente verso il drappo rosso.
Noi l'amavamo perché non era dei nostri e sapeva lottare da solo contro tutti.
E le sue brillanti lezioni! Per lui Hemingway era "il giornalista ubriaco e barbuto di Oak Park", Tennessee Williams "uno zucchero d'orzo sudista che da anni si masturba sulle soglie di un'idea." Mentre i nostri autori, argomento del suo insegnamento, avevano semplicemente "l'andatura di elefanti in un negozio di porcellane". Inoltre, era il solo a chiamarci "signori" a differenza della massa di insegnanti incompetenti le cui sacocce da professori scoppiavano, ripiene di tutto e in particolare di gallette grasse, di teste di cipolla, pacchetti di margarina e compiti degli allievi.
Ecco come finiva tutto; eravamo seduti là, in questo antro segreto, nel bel mezzo dello sprofondare del mondo, tra le rovine della tour Eiffel, sotto gli alberi abbattuti degli Champs-Elisées. C'est la vie!
- Mi dispiace, signori, mi dispiace molto. Ma doveva finire così un giorno o l'altro...disse Berberski. Mi dispiace davvero, ma quei citrulli in sala dei professori mi avrebbero divorato se non ci fosse stata 'sta faccenda di Parigi; non potete ancora capire! Ma ci arrriverete certamente, un giorno, voglio dire a Parigi!Ci credo fermamente! Ve lo giuro!

domenica 6 marzo 2011

L'azzurro

L'azzurro non si appoggia alle scarpe,
alla sola sigaretta di un nome
l'azzurro è dove ne sai l'alfabeto
dove il cuore ti nasconde il suo segreto.
Dove il fine che hai perduto s'imporpora
dove la tortora ti si poggia in piazza
sopra la manica che usavi per corazza
contro teneri sconosciuti,
contro le ragazze che forse hanno tentato
per suicidi minuti di aprire il palato
di frasi ammaliatrici io cerco qualcosa
ma l'azzurro è certamente dove sono più gelosa.

venerdì 4 marzo 2011

è dura la notte sopra ogni cosa

Le sue braccia di piombo si aprono e il suo corpo acido ti inghiottisce, vedi dentro il midollo delle cose e non puoi restare in te stesso. L'amore ha uno spazio nella notte, ma la notte contiene ogni cosa. Puoi restare come un ebete a guardarla non cambierai la sua espressione. Nessun colore ti viene a cercare, è dura quasi come il bianco, quasi come gli ospedali. A volte, sogno di notti in braccio a una nave, cullata dalla marea con la quale hai una sottile distanza. Allora tutte le cose del mondo ti sono vicine e riesci ad affrontare la notte con dignità.
Perché è la dignità che ti inquieta? Perché sono fatta così, mi importa dell'opinione che hanno gli altri. Ma hai mai guardato te stessa, a parte tutte queste mascherate? No, mai.
Perché ti lasci andare ad occhi aperti a pensieri immondi, ti sembra normale?
Non riuscirai mai a vedere oltre il tuo egoismo, anche se le valvole del tuo cuore sono sincere non lo è la tua testa, tutto si ripete e niente cambia, e questo sarà un post come altri.

giovedì 3 marzo 2011

mercoledì 2 marzo 2011

martedì 1 marzo 2011

me stesse

eccola. la faccia dell'innamorata di qualcosa che non trova. Il teatro non è il suo futuro, è il suo presente. Il suo fisico rappresenta la sua volontà: rattrappita.
Una cicatrice le traversa il cranio, che non sa proprio unire le sue parti.
Occorre un colpo più forte? Non sono già al limite? Cosa si farà ora?
è dolce accogliere qualcuno a casa,preparargli un pasto, chiachierare di tante cose, mentre il primo sole di primavera filtra dalle finestre.
Internet invece mi provoca nervosismo, vai a cercare come congelare un tiramisù e ne esci con la paranoia di salmonellosi varie.
bah.

lunedì 28 febbraio 2011

Le tout-sachant (aspetta la sua musica se qualcuno si vorrà cimentare)

LE TOUT- SAchant





Je sais des choses
des choses qu'il faut pas dire
je sais beaucoup de choses
qui ne me font dormir
Je sais des choses
des choses qu'il faut pas dire
je sais toute sorte de choses
des choses de prophéties
des choses secrètes
des choses indiscrètes
des choses analphabètes
des choses anonymes.
Des choses coquettes
des choses sucettes
des choses croquettes
des choses hors de loi.

Je sais des choses
des choses qu'il faut pas dire
moi je les sais
je n' peux pas les écrire.
Vous qui me croyez, vous qui me croyez
Faites moi les chanter quelque part.
Faites moi les crier quelque part.
ça fut le jour de la première fleur
qu'ils m'ont tué, parce que je savais.
Mais même si je meurs même si je meurs
donnez-moi des choses, des choses de rien.
Si tu sais ce que je ne sais pas
ma chère petite viens dans mes bras
viens dans mes bras
viens dans mes bras
ma chère petite
viens dans mes bras
et moi je dirais:
Donne-moi tes choses
donne-moi tes choses
il faut pas savoir
il faut pas savoir.

Novi pensieri

Mi avvicino alla finestra che mi piace lasciare un po' aperta, annuso un odore di cipolla soffritta che viene da chissà quale casa del vicinato, danzo con una canzone di ornella vanoni scoperta da poco, e mi dondolo leggermente, sul tavolo le mie partite di scacchi spiegazzate, il ritratto di signora di James al centro, Pascal e Heine in un lato. Una busta trasparente con dei biscotti dentro, per terra il mio accordéon. L'aria si fa più fredda, la cipolla non si sente più, la canzone si sfuma, mi preparo l'henné da mettere nei capelli.

domenica 27 febbraio 2011

Quanta angustia e solitudine quanto spreco fare avventure e non poterle raccontare a nessuno
Ascolto una musica la più dolce che ci sia
ma non basta
il mio cuore sembra andato via.
Vorrei tanto che qualcuno lo cantasse ad al alta voce
Ma la sola voce assurda è una chitarra.
Come nelle più antiche tradizioni di soli
Sfuggo a un benevolo universo
Mangiando cose dolci un po' ammuffite.
Assopite questo mio sfogo
assopite pure il dialogo
assopite le vostre storie allegre
assopite le stelle se le vedete
assopite le nuvole
assopite le pareti rosse della botte
e datemi solo il pigiama caldo dell'abitudine.

la mia religione

Alcuni in Vietnam

Venerano Victor Hugo come loro dio.


giuro.

sabato 26 febbraio 2011

me

Un giorno vedranno
la mia scarsa pretesa
e mi seppelliranno
una mano sul cuore
pur se o proprio perché
Nella vita faceva altro
ma era solo per tormentarsi
e per passare il tempo.

Ho delle idee
delle piccole idee che esplodono
così velocemente che s'odono
dei piccoli schiocchi e maree
ritornano, gorgogliano
più niente, come un mostro marino inventato

Ho difetti,
Che danno spaventosi effetti
In fondo il mio temperamento
non è tanto diverso dal vento
e la mia sacrosanta pazienza
è l'unica intelligenza.

Ho sogni
che spero non imploderanno
ma alla fine si risolveranno
in uno: continuare me stessa.

Poi quando sarò vecchia, se
sarò vecchia, allora il mio sogno
sarà solo morire, et voilà.

Era dicembre e faceva freddo ma...

L'interpretazione dell'attore

L'interpretazione dell'attore non deve interrompere la visione d'insieme, ed è quello che possiamo chiamare immedesimazione. Cioè quando lo spettatore si immagina le azioni della scena come azioni reali.
Quali sono le interruzioni in questo caso? è importante farle notare, renderle presenti? Tutto resterebbe piacevole, ma in modo diverso. Solo un pinocchio potrebbe non apprezzare il grillo parlante.

Su Dante, le note, Pascal e qualcos'altro

Spesso rifletto sulla lettura ad alta voce, diversa da quella nella propria testa. Tutte le edizioni ci hanno sempre assillato di note ma trovo spesso che, quando si percepisce una figura, in Dante, per esempio, anche uscendo dalla Storia, dal folklore, dal presente dell'opera, possiamo capire un ammasso di cose, ognuno al suo livello, certo.
Il difetto è che quasi sempre quest'ammasso di cose è, come dice la parola ammasso, così tanto unito in una parola, così tanto riassunto, che non si può dire ordinato, né vicino alla natura e quindi alla nostra sensibilità. è vago ed è ingiusto dire che il vago è poetico. Il poetico non è così vago, ma spesso, come la natura, struttura ogni cosa in sé perfetta, per creare qualcosa di bello nell'insieme.
Un altro difetto è che nessuno percepirà mai quello che tu hai percepito, perché dovresti spiegarglielo con delle parole, ma anche se spiegato, dalla sua visione delle cose non capirebbe. La retorica certo fa sì che la persona con cui si dialoga veda non l'errore nel suo modo di vedere, ma una limitazione, che può essere espansa a piacere.
Ma non è detto che io, essendo uno spirito più sensibile, più fino, come diceva Pascal, possa allargare il pensiero del mio interlocutore come allargo il mio proprio pensiero.
Sarebbe impossibile cambiare l'acqua di un fiume trasportandone un po' da una sorgente all'altra.
Al contrario un curatore che attraverso le note ci costringe in un luogo più limitato spesso ci impedisce la visione d'insieme, per non dire che tormenta la nostra lettura.
Così a scuola siamo sempre stati abituati a questa lettura geometrica, frammentaria, tanto da dire che questa è la lettura umana.
Ma se nella loro testa i poeti concepiscono il tutto non è perché sono sovrumani, ma semplicemente perché il loro non è un pensiero abitudinario, esiste questa unità dell'autore, che non arriva quasi mai al lettore, a causa della lettura. Ma ad alta voce si rischia di collassare questo interessante processo.



In un discorso orale si ha l'impressione di quell'uomo che ha detto tutto e continua ancora a parlare, nel discorso scritto si ha l'impressione che tutto non sia ancora stato detto, che lo scrittore è il protagonista di una novità, il lettore passivo spettatore curioso.
Questa curiosità è la malattia dell'uomo, quella che diceva Pascal: "la maladie principale de l'homme est la curiosité inquiète des choses qu'il ne peut savoir."
Mi viene rabbia quando capisco che il discorso di un bel libro ha termine, mentre una bella conversazione non ha termine se non per stanchezza, e indisposizione fisica.
Il libro di ciascun essere umano dovrebbe essere lungo all'infinito quanto la sua vita, e con abbastanza note per essere infine buttato e superato da quelli che vengono dopo.

venerdì 25 febbraio 2011

Mattina (2 + 2 = 5. Radiohead)

Are you such a dreamer
To put the world to rights
I'll stay home forever
Where two and two always makes a five
I'll lay down the tracks
Sandbag and hide
January has April showers
And two and two always makes a five
It's the devil's way now
There is no way out
You can scream and you can shout
It is too late now
Because you're not there
Payin' attention
Payin' attention
Payin' attention
Payin' attention
yeah I feel it, I needed attention
Payin' attention
Payin' attention
Payin' attention
Yeah I need it, I needed attention
I needed attention
I needed attention
I needed attention
Yeah I love it, the attention
Payin' attention
Payin' attention
Payin' attention
Soon oh
I try to sing along
But the music's all wrong
Cos I'm not
Cos I'm not
I'll swallow up flies?
Back and hide
But I'm not
Oh hail to the thief
Oh hail to the thief
But I'm not
But I'm not
But I'm not
But I'm not
Don't question my authority or put me in the box
Cos I'm not
Cos I'm not
Oh go up to the king, and the sky is falling in
But it's not
But it's not
Maybe not
Maybe not

giovedì 24 febbraio 2011

Una modesta traduzione della canzone qui sotto

On n'est pas là pour se faire engueuler (Boris Vian) trad. Elisa Della Martire


Mi svegliai come una freccia e chiamai
La mia cara mogliettina e gridai:
« è mattina, non lo vedi, alzati!
Che il gran giorno è arrivato. »

Senza altra smanceria ci affrettammo
Per vedere il re passare quell'anno
Ma un agente s'interponeva, col manganello, allora, ho detto:

« Non siamo qui per sentire scenate
siamo qui per veder le sfilate
Non siamo qui per le manganellate
siamo qui per veder le sfilate

Se tutti fossero restati a casa
La repubblica ne gioverebbe.
E allora caro, si sposterebbe?

Sennò lo giuro alla prossima il re
Può sfilare senza di me. »

Per la festa di totò il mio compare
L'ho invitato in un bar del lungomare
Dove servono il Lambrusco d'annata
Proprio un bel beverone.
Siamo usciti per passar la nottata
Ma non avevo previsto l'arrivo
a casa con mia moglie e'l suo mattarello

Allora, ho detto:
« Non siamo qui per sentire scenate
Siamo qui per un poker non-stop
Non siamo qui per le mattarellate
Siamo qui per la festa a Totò.

Se si restasse per sempre da soli
Tutto il tempo da soli, che noia!

Apri la porta e porta i bicchieri!

Non ti ostinare o alla prossima beh
Puoi sgolarti senza di me.»

Ma mia moglie quella volta ha picchiato
così forte che pure il vicinato
Mi ha sentito mentre son trapassato
Dritto da ser S.Pietro

Prima è entrato qualche privilegiato
ma al mio turno devo avere esalato
l'ultimo alito di vino S. Piero
è sbottato.
Allora, ho detto:
« Non sono qui per sentire scenate
Sono qui per provare le aluccie
Non sono qui perché voi mi cacciate
Sono morto, un bel riso mi sfugge.
Se gli ubriachi li cacciate con me
Non deve più restarvi granché.

Saluti io, vi lascio qui...»
Sono disceso da Satana e là
Ci vivevo come un pascià

Ciò prova che al momento
Se sai farti sentire
Ci puoi riuscire
a rimanere
contento un po'!

martedì 22 febbraio 2011

On n'est pas là pour se faire engueuler - Boris Vian

Qualsiasi cosa, alla fine c'è sempre la soluzione di Boris Vian..

Che scriveva opere in inglese per poterle tradurre. E che non dormiva che cinque ore a notte perché temeva nel sonno la morte, e che rispondeva al telefono scrivendo con la mano destra una canzone, con la sinistra una traduzione...

mercoledì 16 febbraio 2011

mercoledì 9 febbraio 2011

Poppies in July (Sylvia Plath) uno studio

Little poppies, little hell flames,
Do you do no harm?
You flicker. I cannot touch you.
I put my hands among the flames. Nothing burns
And it exhausts me to watch you
Flickering like that, wrinkly and clear red, like the skin of a mouth.
A mouth just bloodied.
Little bloody skirts!
There are fumes that I cannot touch.
Where are your opiates, your nauseous capsules?
If I could bleed, or sleep!-
If my mouth could marry a hurt like that!
Or your liquors seep to me, in this glass capsule,
Dulling and stilling.
But colourless. Colourless.


Questa poesia mi fa pensare alle medicine, ai colori, al cercare qualcosa che non si può raggiungere e al sentirsi paralizzati.
C'è una sorta di catena formata dalle parole, che si ripetono legando tutte le parti. Anche la struttura metrica fa pensare ad un'ossessione e ad un sentirsi costretti.

Al primo verso ad esempio vengono paragonati i papaveri a delle fiamme d'inferno.
Ecco che nel quarto verso è la poetessa che mette le mani tra le fiamme. Come una persona sotto effetto di oppio che perde la cognizione di quello che aveva visto prima e si trova tra le fiamme (among the flames) come se fosse tutto di nuovo ricominciato, e il corpo ripete, come un'eco: "Ci sono fiamme qui che non bruciano. Cosa saranno?"

Mentre il termine flicker nella forma flickering è ripetuto, quindi parallelismo terzo e sesto verso.
Il terzo parallelismo vistoso è il sangue (bloodied, bloody, bleed) che si attacca ad una serie di immagini suggestive, come le gonne, e la pelle di una bocca (che sanguina quasi fosse la metafora di una poesia tormentata, o in pericolo).
Il rosso è una costante in tutto il poema e si distingue ai nostri occhi attraverso le fiamme, la bocca insanguinata e le piccole gonne.
Per finire col significativo "But colourless. Colourless."
La poetessa vorrebbe toccare i papaveri, esalarne i fumi, berne il liquore. Vorrebbe sanguinare essa stessa, e raggiungere il fumo, o il guizzare dei fiori.
Ma non vorrebbe più vederne il colore.

Per ascoltare Coleman

http://www.m-base.org/sounds.html

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