mercoledì 30 marzo 2011

elipoppins

Ray Ventura et son Orchestre - Le nez de Cléopâtre (1938)

terremotata

Firenze un sottoscala fumoso mitigato dai colori del tramonto.
Oggi un gatto appollaiato, Ray Ventura nello stereo, un fantasticare ottimista soprattutto dovuto al lavoro che la piccola Arielle doveva fare sulla Gioconda.
Canzoni per bambini.
Mattino a disegnare labirinti sempre per i bambini, e a colorare mandala.
agghiacciante la mia confusionaria, gioiosa e giocosa propensione mentre il mio spirito gela e fonde, mentre la mia mente è così piena di speranze inascoltate, di scelte, di terremoti.

sabato 26 marzo 2011

La cosa più forte

Non è il rancore
Non è l'amore
Non è il terrore
è...la gratitudine.

Non è la fede
Non è il dispetto
Non è la confusione.

è...la gratitudine.

Non è il pane
Non è l'acqua
Non è la sapienza

è la gratitudine

Non è il teletrasporto
Non è la vita eterna
Non è la pietra filosofale

è la gratitudine

Non è il viaggio da solo
Non è la manifestazione in gruppo
Non è desiderio carnale

è la gratitudine

Non è l'arte
Non è lo snobismo
Non è l'insicurezza

è la gratitudine

Non è una poesia
Non è una pipa
Non è un sogno

è la gratitudine.

lunedì 21 marzo 2011

fuori..e dentro



Sono qui

Parigi. Un cane costruito con mattoncini di plastica colorata da un bambino con non ancora abbastanza "puppy-points" per permetterselo mi guarda da terra.
Un giorno la riproduzione vivente di questa creatura caccerà per sempre i mostri dalla sua stanza.
Una sgradevole pompa di calore in una giornata estiva ma non abbastanza calda. Un pianoforte che mi ricorda lo stacco dal mondo, con sopra un orologio che mi ricorda l'appuntamento all'università.
Tutto è assurdo ed allo stesso tempo tenero e cortese.
Il contatore di elettricità misura l'elettricità, i bicchieri celesti sono rangés uno dentro l'altro in una credenza dipinta di giallo.
I dubbi si intridono e si elasticizzano ed i libri di cucina inglese-francese si succedono sullo scaffale en donnant envie di cimentarsi.
Resterò un altro anno? Non resterò un altro anno? Sarò pronta a farlo da sola? Se non provo il pensiero di non averlo fatto mi farà sopravvivere?
tout le monde peut pas s'appeler durand

mercoledì 16 marzo 2011

L'assoluto con due forchette.

Ero all'ora in cui le lancette si baciano, in un bistro fumoso con il giornale in mano in una scena proprio céliniana.
Ero con Sybille, donna fragile e grande ascoltatrice di storie.
Lei non mi avrebbe mai parlato di razza tra un bicchiere ed un'articolo di giornale, come d'altronde io non sarei mai corsa ad arruolarmi in Place de Clichy. A pensarci bene non parlava molto, ed io giocavo con la mia quiche sbruciacchiata sul fondo.
Ero giovane, e non temevo le discussioni sconclusionate nelle quali anzi mi consideravo abile. Avrei potuto riempirne una dispensa, farne un menù.
La giornata ci portò a parlare dell'assoluto. Io non ci credo, mi affrettai subito a specificare, non posso, se l'assoluto ci fosse non ci sarebbe libertà.
Vedi, prendi questo piatto. Ci sono due forchette e un coltello. Ora, io sono l'assoluto, prendo il coltello, ecco. Taglio un pezzo di quiche. Tu hai solo la forchetta, non puoi tagliartene un pezzo, io posso, ecco. Vedi? E ne tagliai un pezzo per lei.
Dunque se ci fosse l'assoluto non ci sarebbe la libertà. Metto questo coltello qui, così entrambe possiamo giocare ad essere assoluto, ma per un momento solo. Poi il coltello si poggia e ricomincia la condivisione, la relatività, la relazione insomma.
I suoi occhi erano sereni e le sopracciglia si inarcarono leggermente, quando di soppiatto prese il pezzo più grosso della quiche con la mano e ne staccò un morso.
Quel morso, non lo scorderò mai. Ognuno è molto originale nelle sue follie, quindi perché non seguirsi come si segue piano piano un romanzo, riga dopo riga. Sybille era lei che diceva: ma perché continui a scrivere quel tuo blog? Conservati un po' di argomenti e segreti per i nostri bellissimi dialoghi.
Forse sognavo, ma credetti di vederla voltarsi ad osservare un'altra donna, la sigaretta volteggiante al ritmo della gonna, il sole che le faceva brillare gli occhi piccolini. Allora mi alzai, misi a posto la sedia e feci per andarmene. Ma le sue mani mi presero un pezzo di jeans, ci mettemmo a ridere e ritombai al mio posto, trepidante di possibilità in quel lunghissimo pomeriggio.

martedì 8 marzo 2011

L'effondrement de la ville de Paris (Momo Kapor) traduit par Elisa Della Martire à partir de la traduction française de Madelaine Stevanov.

Quando la città di Parigi sprofondò.

Era chiaro alla prima occhiata che il professor Vojislav non fosse dei nostri, né della nostra città.
Giorno e notte potevate trovare nelle tasche della sua giacca un fazzoletto bianco come un velo e, per le vacanze scolastiche, faceva i bagagli e partiva per Parigi, da dove ritornava poi smagrito e pallido d'emozione.
Era una curiosità rara in una città in cui la gente non partiva se non eccezionalmente, tranne che per andare ai bagni.
Il professor Berbeski era, si sarebbe detto, totalmente assorbito dalla città di Parigi.
Ecco perché non reagiva quando, vedendolo passare nel suo abito elegante i ragazzacci della notte gridavano "Pederasta!". Ci parlava del Café de Flore, di Picasso, con il quale era migliore amico, e lo chiamava "mon ami Pablito", del Quai des Tournelles vicino alla Senna, dell'organo di César Franck e del calvados ai "Deux Magots", della cioccolata calda che beveva a la Coupole, di Juliette Greco e di mille meraviglie inaudite, per poi aggiungere, con un gesto della mano:
"Signori, è ora che ritorniamo al nostro povero sciancato Vuk per la qual cosa oltretutto vengo pagato nel vostro borgo pittoresco che puzza d'acquavite a basso grado alcolico e di grigliate."
Ecco il professor Vojislav N. Berberski!
Si fermava tra i banchi e sferrava uno schiaffetto sul cranio rasato di fresco di Pufko, solo per il gusto di sentir risuonare un volgare cranio balcanico e Pufko si sentiva particolarmente lusingato che il professore avesse scelto la sua testa e non un'altra!
Era il tempo delle vacanze invernali e, come suo solito, il professore partì per Parigi. Era per noi meno penoso sopportare l'eterna passeggiata serale nel Corso e l'unico film in programmazione per quindici giorni perché conoscevamo qualcuno per il quale andare a Parigi era altrettanto semplice che per noi andare al mercato.
Mi ricordo che quell'inverno avevo i palmi tagliuzzati dalle gabbie d'imballaggio metalliche piene di bottiglie di latte, che noi distribuivamo ai piani, Pufko e io.
Un giorno, quattordici giorni dopo la partenza del professore, ricevemmo una cartolina da Parigi, con i Bouquinistes sul bordo della Senna.
Una frase pomposa diceva:
Sono sulla terrazza de la Rotonde e mi riposo dalla patria. V.N. Berberski. P.S.= ritorno tra una decina di giorni.
L'indomani ci cambiarono di settore e fummo incaricati della via Skerlìc, dal numero 10 al 23.
E quale stupore quando, come fatto uscire di fretta da un sonno durato cinque anni, da dietro una porta che aveva sull'etichetta il nome di un altro, vedemmo uscire come un topo dal suo buco il professor Berbeski in persona!
Il suo viso sempre rasato di fresco era stavolta coperto da una barba di quindici giorni, stranamente brizzolata.
Il figlio di Parigi era in piedi davanti a noi in un pigiama sporco e sgualcito, a piedi nudi sul cemento.
- Allora vi siete immaginato tutto? gridò Pufko rispingendo Berbeski nella miserabile piccola camera piena di conserve di goulash vuote e di croste di pane.
In mezzo a questo guazzabuglio oscillavano, come fantasmi appesi al soffitto, gli abiti eleganti del professore imballati in protezioni di plastica.
- Allora Parigi non esiste? Né Juliette Greco, né i bouquinistes, né tutta questa merda?
Con un gesto febbrile il professore cercò di stringere attorno a lui il pigiama a righe al quale mancavano tutti i bottoni e che scopriva una pancia bianca con qualche rotolino e delle livide gambe pelose.
Fuori di sè, urlando, Pufko continuava a scuoterlo fino a rispingerlo accanto al letto, dove il falso parigino si fermò.
Preso da una violenta agitazione, Pufko gli sputò in faccia tutto, che aveva creduto ciecamente che ci sarebbe arrivato, lui, un giorno, fino a questa città di Parigi, e tutto il resto, mentre lui - amico personale di Picasso - si rimpinzava tranquillamente di gulash riscaldato in via Skerlic e lo lasciava, lui Pufko, senza la minima prospettiva di uscirsene un giorno da quel buco, e non solo lui ma ogni altro ragazzo della nostra classe!
- Per l'amor del cielo, signori! Supplicava Berberski, stropicciandosi il pigiama. La padrona di casa vi sentirà! Calmatevi! Prendete una sigaretta! Prendete, anche se come professore non dovrei...prendete, non vergognatevi...
Le sigarette cadevano dalla scatola scossa freneticamente.
Ci sedemmo sul suo letto sfatto e ci accendemmo ciascuno una Drava, che ricordava al nostro professore le Gitanes, parole sue.
Avevamo l'aria proprio miserabile, circondati da posaceneri debordanti in cui dei mozziconi emergevano dalle ceneri della città di Parigi.
Siamo rimasti là cinque minuti o duecento anni, non so più ben dirlo, pensando al nostro caro professore.
Il suo guardaroba stravagante e la sua eterna solitudine gli valevano l'antipatia di tutta la città, presa dall'irritazione impotente che è quella del toro che si abbatte ciecamente verso il drappo rosso.
Noi l'amavamo perché non era dei nostri e sapeva lottare da solo contro tutti.
E le sue brillanti lezioni! Per lui Hemingway era "il giornalista ubriaco e barbuto di Oak Park", Tennessee Williams "uno zucchero d'orzo sudista che da anni si masturba sulle soglie di un'idea." Mentre i nostri autori, argomento del suo insegnamento, avevano semplicemente "l'andatura di elefanti in un negozio di porcellane". Inoltre, era il solo a chiamarci "signori" a differenza della massa di insegnanti incompetenti le cui sacocce da professori scoppiavano, ripiene di tutto e in particolare di gallette grasse, di teste di cipolla, pacchetti di margarina e compiti degli allievi.
Ecco come finiva tutto; eravamo seduti là, in questo antro segreto, nel bel mezzo dello sprofondare del mondo, tra le rovine della tour Eiffel, sotto gli alberi abbattuti degli Champs-Elisées. C'est la vie!
- Mi dispiace, signori, mi dispiace molto. Ma doveva finire così un giorno o l'altro...disse Berberski. Mi dispiace davvero, ma quei citrulli in sala dei professori mi avrebbero divorato se non ci fosse stata 'sta faccenda di Parigi; non potete ancora capire! Ma ci arrriverete certamente, un giorno, voglio dire a Parigi!Ci credo fermamente! Ve lo giuro!

domenica 6 marzo 2011

L'azzurro

L'azzurro non si appoggia alle scarpe,
alla sola sigaretta di un nome
l'azzurro è dove ne sai l'alfabeto
dove il cuore ti nasconde il suo segreto.
Dove il fine che hai perduto s'imporpora
dove la tortora ti si poggia in piazza
sopra la manica che usavi per corazza
contro teneri sconosciuti,
contro le ragazze che forse hanno tentato
per suicidi minuti di aprire il palato
di frasi ammaliatrici io cerco qualcosa
ma l'azzurro è certamente dove sono più gelosa.

venerdì 4 marzo 2011

è dura la notte sopra ogni cosa

Le sue braccia di piombo si aprono e il suo corpo acido ti inghiottisce, vedi dentro il midollo delle cose e non puoi restare in te stesso. L'amore ha uno spazio nella notte, ma la notte contiene ogni cosa. Puoi restare come un ebete a guardarla non cambierai la sua espressione. Nessun colore ti viene a cercare, è dura quasi come il bianco, quasi come gli ospedali. A volte, sogno di notti in braccio a una nave, cullata dalla marea con la quale hai una sottile distanza. Allora tutte le cose del mondo ti sono vicine e riesci ad affrontare la notte con dignità.
Perché è la dignità che ti inquieta? Perché sono fatta così, mi importa dell'opinione che hanno gli altri. Ma hai mai guardato te stessa, a parte tutte queste mascherate? No, mai.
Perché ti lasci andare ad occhi aperti a pensieri immondi, ti sembra normale?
Non riuscirai mai a vedere oltre il tuo egoismo, anche se le valvole del tuo cuore sono sincere non lo è la tua testa, tutto si ripete e niente cambia, e questo sarà un post come altri.

giovedì 3 marzo 2011

mercoledì 2 marzo 2011

martedì 1 marzo 2011

me stesse

eccola. la faccia dell'innamorata di qualcosa che non trova. Il teatro non è il suo futuro, è il suo presente. Il suo fisico rappresenta la sua volontà: rattrappita.
Una cicatrice le traversa il cranio, che non sa proprio unire le sue parti.
Occorre un colpo più forte? Non sono già al limite? Cosa si farà ora?
è dolce accogliere qualcuno a casa,preparargli un pasto, chiachierare di tante cose, mentre il primo sole di primavera filtra dalle finestre.
Internet invece mi provoca nervosismo, vai a cercare come congelare un tiramisù e ne esci con la paranoia di salmonellosi varie.
bah.