lunedì 15 giugno 2015

Note della commessa


Alle persone piace essere prese in giro. Esse adorano essere circondate di lusinghe rivolte al loro portafogli, adorano essere imbottite di proposte guidate non dall’attenzione filantropica ma puramente dal desiderio di vendere. Le commesse si prendono cura a pagamento, sempre mantenendo una certa distanza, sia chiaro.
Da qui vedo passare tanta gente, tanti sguardi da carpire, affollamenti umani, gruppi di turisti, di manifestanti, di motoraduni, di venditori come me. Ognuno è preso dalle proprie smanie, chi più pressato, chi meno.
Molti guardano gli annunci mortuari, ed è come se guardassero un’altra schiera di gente, sono loro, loro meno loro. Quelli che passano. Senza accorgersi che anche gli osservatori, almeno dal mio punto di vista, passano in modo altrettanto definitivo. Ecco il gioco d’immedesimazione dell’essere umano, che si finge morto mentre vive, muore per sentire la vita, butta le cose e i ricordi per poter vivere e ridere.
Io dovrei prenderla tranquillamente, sforzarmi affinché riesca in questo lavoro fuori da me.
Però, allo stesso tempo, sento di non riuscire ad approfittare pienamente degli eventi per una crescita personale.  Guidata da esigenze odierne e materiali ho dimenticato di osservare da scrittrice. Poi, quando comincio, già devo interrompere.
Tardi. Cosa resta della stanchezza? Il dolore è prolifico, ma la stanchezza?
La stanchezza sorella dell’anemia, dell’ignavia. Posso spingere la stanchezza fino a produrre dolore. Se puoi portare il dolore al di sopra della stanchezza puoi anche nutrire il tuo Dio del Fare. Perché è diventato un Dio, vero?

L’esperienza è già finita. In una catena di esperienze così brevi uno finisce col tirare poche conclusioni e scoprire che la riflessione che voleva fare è in realtà una riflessione più ampia su tutta la propria vita di incerta.
Non posso più leggere un libro. Non che sia la Titolare a negarmi il permesso, lei non ne è nemmeno a conoscenza; il problema è che, ogni volta che comincio a leggere, i miei pensieri cominciano a correre e a liberarsi come dei muscoli aerei, e se penso scrivo. Pensiero e scrittura sono in me come la mente e l’azione, quasi un automatismo che non c’è più. Avere la nostalgia di un automatismo. Sto qui, giorni e giorni, a piegare vestiti su vestiti, e rido di questi nuovi automatismi che un giorno saranno, anch’essi ne sono certa, per me qualcosa di antico.
Piegare non ha niente a che fare con lo scrivere, perciò il mio spirito e il mio corpo devono ammettere questo movimento come se fosse altrettanto necessario, cosa che di fatto è, per vivere, anche se non può esserlo fino in fondo. Potrei cercare di inventare che l’azione di piegare i vestiti abbia in sé qualcosa di poeticamente irrinunciabile, un po’ come il disporre ogni lettera sulla propria riga, un po’ come la lima perfezionistica della grammatica, questo però non mi darebbe sollievo e non porterebbe a niente se non potessi, e di fatto non posso, applicarlo allo scrivere ma solo al piegare.
Scrivere diventa così un’azione proibita, un’azione da insonne con diversi inquilini nella mente che mi incitano a smettere, o a continuare, a seconda del caso.
Nel periodo delle Avanguardie novecentesche si cercava di negare l’arte stessa attraverso l’arte, così io rifletto ancora sul mio stato pur avendolo già negato. La Titolare non è più mia titolare da una settimana almeno, avendo lei modificato gli accordi presi in precedenza tra noi.

Adesso è una sorta di patto “a chiamata”, sempre in nero, naturalmente, ma non mi stupisce che, dal giorno delle modifiche, non mi abbia più chiamato. Secondo lei, la mia collega ed io dovremmo compatirla in quanto datrice di lavoro che si sforza in un piccolo paese di tenere aperti due negozi di vestiti. Non mi dispiacciono questi giorni di vuotezza nei quali, in ogni caso, ho deciso di continuare a scrivere.

1 commento:

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