Dolori muscolari si accaparrano la mia schiena,
da troppo tempo non mi alzo da questa sedia a dondolo. D'un colpo mi ricordo di
altri dolori muscolari, di quando il giorno, come un'inarrestabile combattente,
avevo la forza di agire in tutte le direzioni, anche se spesso erano sforzi
inutili, che importava?
Ma c'è qualcosa che, anche seduta qui, continua
a non abbandonarmi. Qualcosa oltre la penna, e il piacere di scrivere.
L'unica altra passione davvero comparabile, che
possa guidare la vita di qualcuno come ha fatto con la mia.
A dire la verità dubito che possiate godere,
tanto quanto me, delle doti curative di questo lungo pensiero, come dubito,
dopotutto, che un tale fenomeno si possa ripetere altrettanto in un'altra epoca
e in un'altro luogo.
Per questo ho deciso di raccontarlo, senza
pretese di comprensione o d'arte.
Mi sono sempre abituata male alla solitudine,
ma se mi lasciavano sola cercavo di campare immaginando mondi popolati, da
creature non comuni, mondi nei quali approfondivo concetti e traumi come ogni
bambina dovrebbe essere lasciata libera di fare.
Non ero una bambina più intelligente della
media, la mia sensibilità derivava, lo presumo, da qualche sofferenza pre-natale
o da qualche immagine che attraverso gli occhi di mia madre era arrivata fino a
me.
E' vero che mi piaceva già, e molto, scrivere.
Sto cominciando a rabbrividire perché ogni
volta che faccio qualsiasi cosa, compreso scrivere, senza parlare di scrivere
dello scrivere, lo sento. Sento la sua traccia in me, sento il suo profumo,
alla quale mi sono ispirata, come una conchiglia che cresce attaccata sempre
allo stesso scoglio e non riesce mai a staccarsene, nemmeno se un bambino la
vede, dice "che bella!" e la stacca per prenderla e collezionarla.
Nemmeno in quel caso la conchiglia si dimentica
di quell'odore, di quel segno.
E il segno di lui, dicevo, ce l'ho qui fra le
mani, qui nel mio scrivere.
E' cominciato tutto scrivendo, tutto è passato
prima attraverso la parola, i giochi di parole e le curiosità.
In una chat-line, una delle prime, mi ci ero
lanciata piena di curiosità. Non ero il tipo da annoiarmi, di sicuro se quel
giorno non avessi usato il computer mi sarei divertita con qualcos'altro. Ma la
chat era una cosa nuova, e il bibliotecario aveva spiegato a mia sorella come
usarla, che lo aveva spiegato a me.
Per mia madre (il ruolo di mia madre è molto
interessante in tutto questo) tutto faceva parte del mio scoprire la vita, e
poi di ciò che era nuovo anche lei si stupiva. Così il suo stupirsi, la sua
calma serena, contagiava anche me.
Scherzammo, all'inizio, lui ed io, finché non
ci accorgemmo che anche nello scherzo ci stavamo seguendo perfettamente, che
nello schermo bianco il flusso di pensieri era unico, il cesto dove si
mescolava la frutta fresca delle nostre parole era uno.
Ci stavamo seguendo nella fantasiosa birboneria
di chi ha letto tanti libri e di chi ama quasi più i mondi inventati di quello
tangibile e, dicono, reale.
Così ci siamo quasi visti allo specchio, e
volevamo sapere l'uno dell'altra, dove si trovava, come, perché, e se provasse
lo stesso.
Ma le metafore si rincorrono e spesso chi ci si
affeziona ne esce a malincuore. Per questo sono una delle trappole dello
scrittore.
Così lui volle sapere l'età della persona che
gli era capitata di fronte, e prima mi disse la sua. Me lo disse con un gioco
di numeri che riportava ai sette nani più qualcos'altro. Io per nulla
spaventata avevo immaginato che si trattasse di qualcuno molto più grande di
me, anche se dentro di me rimasi delusa nel constatare quella che mi sembrava
una distanza incommensurabile.
Certo eravamo connazionali, certo la stessa
lingua, non della stessa regione ma si poteva rimediare. La barriera dell'età,
così forte nella sua convenzionalità, era un tabù troppo grosso per poterlo
usare come corda per saltare.
Mi piacciono le sfide e quando anche lui seppe
con stupore che avevo l'età sette nani per due meno uno e sussultò io ero già
disinteressata a ogni dettaglio pratico.
L'avevo già dentro di me come quei personaggi
che mi inventavo, che li inventavo proprio come li avrei voluto conoscere un
giorno, e l'avevo conosciuto.
Insomma in qualche modo ci conoscevamo già e
continuammo a conoscerci sempre.
Avevo già pianto sul vinile della Canzone di
Marinella di mia madre e avevo già avuto il mio primo ciclo il tre ottobre
1998, quindi potevo già innamorarmi come un adulto.
Potevo ma non tutto il mio essere era deciso,
un po' come quando sbattendo le ali si cerca una traiettoria ma non si è ancora
del tutto sicuri. Si sa già, comunque, dentro, che un giorno sarà necessario
scegliere.
Cos'altro mi aspettavo dalle mie emozioni? Solo
di amare e provare, provare e amare, ma solo come mi sembrava giusto. Come
volevo io. Non come voleva il mondo. A modo mio e in linea con la giustizia
dell'universo. Di fronte a tanti sani principi chi mi avrebbe fermata?
Così mia madre, e una mia cara amica che in
quanto a differenza di età non aveva niente da invidiare a quella col mio
amore, mi accompagnarono a conoscerlo dal vivo.
Non è andata proprio così, ci sono state
lettere, musicassette, cd, pause e riprese, fatto sta che sempre ci pensavamo e
sempre ce ne fregavamo del resto.
Neanche per un istante ho dubitato della sua
onestà o limpidezza nei miei confronti perché, viste le sue reazioni, nessuno
avrebbe raggiunto un tale livello di pazzia conservando però la paura di farmi
male se non un puro di cuore.
C'era un misto di affettuosa attenzione e di
libero interesse che mi intrigava e mi scioglieva ogni dubbio.
L’incontro avvenne all’ultimo piano di una
grande galleria commerciale di Milano. Chissà quanti come noi in quel momento
non sentivano i rumori intorno, chi per crucci lavorativi, chi per abitudine,
chi per shopping pervasivo, chi perché, esattamente come me, aveva il cuore
alle orecchie.
Mi alzai dal tavolino del bar dell’ultimo
piano, lui stava arrivando ed io lo volevo vedere per prima, per avere almeno
un istante di perfetta intimità visiva, che ci sarebbe poi stata giustamente
tolta dalla presenza di mia madre e dell’amica un po’ psicologa.
I suoi capelli, non così corti, per non lasciar
sfuggire la libertà dei riccioli, e il suo sguardo sincero e verde, attrassero
la mia attenzione ancor prima che lui, con un gesto galante, facesse un inchino
con la testa come faceva, da ateo ma rispettoso, ogni volta che entrava in una
chiesa, alzando le sopracciglia.
Ci eravamo riconosciuti, baciarsi sulle guance
e abbracciarsi fu il suggello d’una di quelle che si chiamano, secondo Goethe,
affinità elettive.
Io ero la io di allora, non la io di adesso, ma
ho sempre rispettato, amato quel momento, come un’intuizione sulla quale si
posa l’autostima di una donna, curiosa del mondo, per la quale l’amore non
sarebbe stato un programma conveniente.
Forse la consapevolezza di volere far parlare
la mia sensibilità, di liberarla verso chi sapeva capirla, al di sopra delle
differenze di origini e di età, insieme al piacere di differenziarmi dagli
altri, mi aveva già portato al punto fermo che mi fa andare avanti ancora adesso,
perciò mi innamorai.
Di certo l’amore era già nelle lettere
precedenti, in un pronome, nel cerchio di una a, nell’unire e alterare le
nostre realtà separate, nel volenteroso rumore della tastiera, seguito dal
rimprovero materno che ricordava la scuola l’indomani.
L’odore… l’odore e l’amore però, si erano uniti
solo nella presenza, erano stati più forti, per la prima volta della mia vita,
che le parole scritte.
Nelle mie letture immaginavo il mio futuro, e
facevo sì che il presente fosse degno di una tale immaginazione. Nelle mie
letture avevo già un ragazzo vicino, non ben delineato, avevo già un lavoro,
una famiglia. Nelle mie letture ero già adulta, adulta come credevo che fosse
l’età adulta.
Per fortuna sono brava nelle intuizioni, o
forse è l’immaginazione che poi plasma la tua vita, fatto sta che mi innamorai.
Tuttavia, uno può credere quanto vuole di
sapere già, di essere già capace, il futuro si fa comunque con esperienze che
non ci sono ancora.
Ebbi due altri fidanzati, dai quali imparai
molto, tanto che mi misi in dubbio su quasi tutto, tanto che credetti
nell’amore che ti insegna, che ti permette di darti agli altri sempre più e
sempre meglio.
Ma l’amore visto così era come un serpente
senza fine, che fagocitava per diventare più forte, lasciando le cose diverse
da come erano prima di incontrarle, ma allo stesso tempo annullandosi in una
leggerezza insopportabile.
Fui grata all’affetto riverente e sofferente di
questi amori, di come mi avevano curata, di come io avevo curato loro, ma
dovetti cambiare ospedale per recarmi
nel reparto dei malati terminali di vita, e preferii amare una sola persona per
sempre.
Adesso no, ancora non dico ch’io non ami anche
altri, ne amo e di continuo, il flusso della me di sempre perdura, sono un
albero con sempre nuove foglie.
Quando però qualcosa viene a nutrire il tuo
tronco, oltre la corteccia, oltre gli sguardi clandestini del vento (che pure,
inestimabile, mi avvolge sempre), devi restarci avvinghiato.
Innamorarmi di altri, nell’accezione che
perdura ancora in me, è allora forse una posa del mio carattere, un
travestimento ?
Lui però, di sicuro, no. Questo è l’amore per
me, all’età di 26 anni.