Siamo perennemente sull'isola deserta, là dove sei tu da solo con le tue ore di lavoro e nessuno può sostituirti. Perché non c'è nessun altro. Tante sono le attività che ti risparmieresti, magari è il tuo corpo a chiederne sempre di nuove, magari il tuo cervello, la tua apprensione per il futuro.
Non puoi ordinare ad altri di farlo, siamo tutti nella solita isola deserta. Quando ti giri nella foresta, perché un nuovo pericolo incombe, perdi il tramonto che squarcia il cielo in divine sfumature.
Il tuo viso però, coraggioso per dovere, riflette un po' di quel tramonto, per restituirlo incoscientemente come un'energia che scorre in tutto il mondo.
Dunque, è proprio la coscienza il problema. Una maschera, un inganno, la coscienza che pretende il protagonismo e che ora mi fa sentire così schiacciata. Potessi far tacere il mio stato di coscienza mi riverserei nel mondo. Faccio esercizio viaggiando in ogni sguardo, oggi che piove e il lago ribatte sulle braccia nude.
martedì 16 giugno 2015
lunedì 15 giugno 2015
Note della commessa
Alle persone piace essere prese in giro. Esse
adorano essere circondate di lusinghe rivolte al loro portafogli, adorano
essere imbottite di proposte guidate non dall’attenzione filantropica ma
puramente dal desiderio di vendere. Le commesse si prendono cura a pagamento,
sempre mantenendo una certa distanza, sia chiaro.
Da qui vedo passare tanta gente, tanti sguardi da
carpire, affollamenti umani, gruppi di turisti, di manifestanti, di motoraduni,
di venditori come me. Ognuno è preso dalle proprie smanie, chi più pressato,
chi meno.
Molti guardano gli annunci mortuari, ed è come se
guardassero un’altra schiera di gente, sono loro, loro meno loro. Quelli che
passano. Senza accorgersi che anche gli osservatori, almeno dal mio punto di vista,
passano in modo altrettanto definitivo. Ecco il gioco d’immedesimazione
dell’essere umano, che si finge morto mentre vive, muore per sentire la vita, butta
le cose e i ricordi per poter vivere e ridere.
Io dovrei prenderla tranquillamente, sforzarmi affinché
riesca in questo lavoro fuori da me.
Però, allo stesso tempo, sento di non riuscire ad
approfittare pienamente degli eventi per una crescita personale. Guidata da esigenze odierne e materiali ho
dimenticato di osservare da scrittrice. Poi, quando comincio, già devo
interrompere.
Tardi. Cosa resta della stanchezza? Il dolore è
prolifico, ma la stanchezza?
La stanchezza sorella dell’anemia, dell’ignavia.
Posso spingere la stanchezza fino a produrre dolore. Se puoi portare il dolore
al di sopra della stanchezza puoi anche nutrire il tuo Dio del Fare. Perché è
diventato un Dio, vero?
L’esperienza è già finita. In una catena di
esperienze così brevi uno finisce col tirare poche conclusioni e scoprire che
la riflessione che voleva fare è in realtà una riflessione più ampia su tutta
la propria vita di incerta.
Non posso più leggere un libro. Non che sia la
Titolare a negarmi il permesso, lei non ne è nemmeno a conoscenza; il problema
è che, ogni volta che comincio a leggere, i miei pensieri cominciano a correre
e a liberarsi come dei muscoli aerei, e se penso scrivo. Pensiero e scrittura
sono in me come la mente e l’azione, quasi un automatismo che non c’è più.
Avere la nostalgia di un automatismo. Sto qui, giorni e giorni, a piegare
vestiti su vestiti, e rido di questi nuovi automatismi che un giorno saranno,
anch’essi ne sono certa, per me qualcosa di antico.
Piegare non ha niente a che fare con lo scrivere,
perciò il mio spirito e il mio corpo devono ammettere questo movimento come se
fosse altrettanto necessario, cosa che di fatto è, per vivere, anche se non può
esserlo fino in fondo. Potrei cercare di inventare che l’azione di piegare i
vestiti abbia in sé qualcosa di poeticamente irrinunciabile, un po’ come il
disporre ogni lettera sulla propria riga, un po’ come la lima perfezionistica
della grammatica, questo però non mi darebbe sollievo e non porterebbe a niente
se non potessi, e di fatto non posso, applicarlo allo scrivere ma solo al
piegare.
Scrivere diventa così un’azione proibita, un’azione
da insonne con diversi inquilini nella mente che mi incitano a smettere, o a continuare,
a seconda del caso.
Nel periodo delle Avanguardie novecentesche si
cercava di negare l’arte stessa attraverso l’arte, così io rifletto ancora sul
mio stato pur avendolo già negato. La Titolare non è più mia titolare da una
settimana almeno, avendo lei modificato gli accordi presi in precedenza tra
noi.
Adesso è una sorta di patto “a chiamata”, sempre in
nero, naturalmente, ma non mi stupisce che, dal giorno delle modifiche, non mi
abbia più chiamato. Secondo lei, la mia collega ed io dovremmo compatirla in
quanto datrice di lavoro che si sforza in un piccolo paese di tenere aperti due
negozi di vestiti. Non mi dispiacciono questi giorni di vuotezza nei quali, in
ogni caso, ho deciso di continuare a scrivere.
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