Sento che l’artificialità mi è necessaria, come se, per fare un’impronta che mi rappresenti, io debba calzare volutamente su certi punti.
D’altra parte, ciò che è artificiale mi ubriaca, lasciandomi spazio solo per qualche momento di lucidità.
Quando sono qui, di fronte a questo schermo, cestino tante cose, imparo persino a non guardarle. Mentre quando sono di fronte ad un paesaggio naturale tutto quello che c’è mi si impone alla vista, tanto da convincermi della definizione dell’esserci, tanto da convincermi di credere e sapere che la realtà sia quella. Ciò che io chiamo realtà, è quello Dio.
Mi posso nascondere sotto migliaia di veli di lino, o di tulle, più rado, ma non basta a farmi perdere la credulità.
Credulità che per me è come un canto è ciò che vedo anche nel linguaggio.
Tante, tante volte non pensandoci mi lamentai, e non so bene perché piansi, perché i miei latrati abbandonarono me, perché usai di quei rumori per evocare l’attenzione degli altri. La scrittura è questa essenza stessa.
Tuttora so che il mio sacrificio sta nell’aver incontrato un uomo, nell’amarlo, e mentirgli, senza sapere bene perché, mentirgli, sulla mia arte. So che sto mentendo proprio mentre, guarda un po’, dietro la porta appare uno specchio, che rivela che quell’uomo è dentro di me, sono io stessa.
Quello che sono non mi abbandonerà mai e allora tanto vale dirgli la verità, ma non ne sono capace.
C’è una bellezza nella conoscenza e c’è una bugia nella bellezza.
Non sono fatta per questo corpo, devo spargermi, e rafforzarmi, e scavare, e farmi prendere dalla terra. Ma non farmi prendere debole bensì vivifica, fertile. Farmi prendere come un flash fotografico sull’ultimo millimetro del parapetto della torre dalla quale mi sto lanciando.
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