Un giorno ipotizzò che tutte le belle anime del passato potessero tornare in vita, in particolare quelle morte di malattie tutt'oggi curabili.
Allora si recò strisciando con le pattine al suo laboratorio, aprì un paio di cassettoni dai quali sgusciarono fuori subito un mucchio di scoperte: la dimostrazione matematica che il fatto che le biciclette toccassero terra era solo un effetto del cervello (in realtà volavano); il progetto per una casa completamente tonda, un apparato fonatorio di cartapesta che, azionato, in base al vento poteva articolare parole diverse, poi, in fondo, una matita mezza schiacciata che, nel suo intimo, si era autoconvinta di essere anch'essa una scoperta sensazionale.
Il nonnino si preparò a sfregarsi le mani, quando si accorse con un abbozzo di sorriso (sembrava che il suo aspetto, persino quello, se lo fosse progettato da sé) che in pugno gli era rimasto un tovagliolo.
Certo quel cartoccio risaliva al ristorante dove aveva mangiato, conservare involontariamente tovaglioli era un suo vecchio vizio, lo srotolò piano piano, ne aprì ciò che rimaneva dei lembi, il tutto sembrava aver preso la forma di una scatolina.
All'interno, con sua grande sorpresa, c'era qualcosa di ancora più bianco, e duro, radente, un foglio!
Con un sussulto il nonnino pensò che magari al ristorante, per passare il tempo tra una portata e l'altra, si fosse messo effettivamente a disegnare, anche se lui si ricordava di aver giocato con la mollica del pane.
Incredibile! Sul foglio c'era scritto qualcosa, e non con la sua calligrafia. Il nonnetto barcollò, l'orecchio fece un movimento di stupore, la macchinina sul soffitto fece una piroetta.
Sul foglio c'era scritto qualcosa.
“Sapevo che l'avresti fatto,
io ti ho sempre amato.
colei che ti raccolse, nel 2009”
Certo fu difficile per il nonnino riprendersi dal colpo, gli venivano in mente solo un'ampia gonna fiorita che si muoveva intorno a lui, l'odore del porto, la malvasia che gli capitombolava dentro lo stomaco, aveva alzato la testa, se l'era ritrovata accanto.
A quel tempo era solo un aspirante regista, che ogni tanto andava a lezione di cinema ma che, in realtà, metteva su la sua bancarella di artigiano sotto la “casa degli artisti” rimessa in sesto.
“Cosa fai lì”, fece il nonnino con molti, molti anni in meno.
La fanciulla, i suoi capelli cortissimi, il suo piercing che luccicava, non aspettò molto tempo poi gli mise una mano sulla fronte. Avendo constatato la situazione, lo prese, gli mise un braccio dietro la schiena, e se lo caricò, come se niente fosse, ma il nonnino non era mai stato, neanche in gioventù, molto robusto.
In men che non si dica la ragazza lo aveva condotto dentro una casa, con una botola come porta d'ingresso, lo aveva fatto stendere di fianco al camino, su un letto altissimo. Più tardi il nonnino giovane si sarebbe accorto delle meringhe appoggiate sul comodino turchese. Non si sarebbe mai dimenticato tutto ciò.
Invece, guarda un po'! Se lo era dimenticato. E se non fosse stato per quel biglietto, nascosto certo nella sua mano da quella segreta silfide, mai più fino alla sua morte gli sarebbe tornato in mente.
È che nel frattempo tante cose gli erano successe, aveva incontrato donne meravigliose, esotiche, ammalianti, e poi le sue scoperte...ognuna pagata dal Ministero delle Sorprese, la sua “ricompensa” statale di 100.000 euro al mese, per manufatti donati all'umanità, l'ammonimento fintamente amichevole ricevuto dal Presidente del Consiglio di “non diffonderli troppo”, tutto questo gli aveva fatto dimenticare.
La mattina dopo, a quanto pare era già trascorso il piccolo strascico di notte che restava, il giovane fu svegliato dall'aroma di pane appena sfornato, che doveva contenere senz'altro qualche pezzettino di cipolla. L'aroma di pane, e il gran mal di testa.
Il nonnetto tentava di scrivere la cosa straordinaria che gli era successa, strusciando romanticamente la pennad'oca/arrosto sulla pergamenta, ma non riusciva ad esprimere a parole quella buffa sensazione, così finì per sgranocchiarsi la penna e masticarsi il foglio.
Fuori faceva un vento turbinoso, quasi stesse per sopraggiungere un uragano, così il nonnino, da solo, dopo aver sigillato le finestre, si apposto davanti alla più grande e cominciò a guardare fuori, inclinando dolcemente la testa di lato.
Tutto questo, aveva un non so che di magico, di inventato, persino la ragazza non sembrava ancora essersi ripresa dall'assurdità che emanava la sua casa. Aveva un ciuffo di capelli azzurro. Ma il giovane non pensava che fosse tinto.
Lei stava preparando un ciambellone, si muoveva per la cucina senza fare il minimo rumore, poi si accostò al letto dove si stava riprendendo lo sconosciuto ubriaco, tese il braccio per arrivare alla mensola sopra il letto, e così facendo il suo seno lo accarezzò, dopidiché egli si accorse di essere effettivamente nella realtà, una realtà morbida, un po' disfatta, che è come un sogno.
Lei lo guardò, con la coda dell'occhio.
“Cos'hai lì?” Volle sapere la fanciulla. Il giovane si guardo il fazzoletto letteralmente imprigionato nel pugno.
“E' un mio vecchio vizio...” rispose. “Dev'essere del locale di ieri sera.”
Era rosso, a pois verdi. La ragazza si mise a ridere.
“Impossibile.” disse sorridendo “Solo io ho quel tipo di tovaglioli.”
Il giovane credette di rabbrividire ma, sotto una scultura di stecchi per spiedini, cresceva una montagna di fazzoletti di carta rossi a pois verdi.
Senza interruzioni la fanciulla continuava a badare al ciambellone, ora era infornato ma non era finita qui: prese uno stecco, separandolo dalla scultura, lo infilzò nel dolce, poi lo guardò, e, non contenta, si sedette finalmente di fianco allo sconosciuto.
Il nonnetto pensava che era stata la convinzione di avere sognato, a fargli dimenticare quell'episodio, ma questo non lo tranquillizzava. In tutta la sua vita, proprio perché una cosa era un sogno, non l'aveva lasciata perdere, ma esplorata, indagata, attorcigliata.
“Io ti ho sempre amato”. Come poteva essere? “Sempre” era una parola grossa! E prima di quella sera, prima del 2009?
Non intendeva forse che lo aveva già puntato da prima?
Il nonnetto si sentì spiato.
II
La prima domanda che gli venne in mente di porgere fu: “Tu non sei di qui, vero?” Ma si rivelò interessante, perché la fanciulla iniziò a raccontare del come si fosse ritrovata in quella città: era un'accanita viaggiatrice, una volta ogni quattro giorni almeno prendeva l'aereo e andava a trovare i suoi amici, in tutte le parti del mondo.
Amici conosciuti per strada, ai concerti, ai mercati di antiquariato, amici con i quali un giorno aveva chiacchierato in spiaggia, o su un traghetto, o in cima alla torre Eiffel, o nel mezzo di una camminata in montagna.
Un giorno però, la compagnia di voli con la quale viaggiava decise di premiarla.
Così, senza neanche averlo chiesto, si ritrovò con in tasca un buono per un viaggio a sorpresa.
Andò all'aeroporto, e scoprì che “viaggio a sorpresa” significava poter prendere un loro volo senza però saperne la destinazione. All'inizio era un po' contrariata, ma poi, tra smancerie gentili, riuscirono a convincerla a partire immediatamente.
Al check in una coda di gente dall'aspetto, si capiva, abituata a viaggiare, fischiettava e borbottava. Tutti sembravano molto più allegri di lei, all'idea di partire, finalmente, non più per la solita prevedibile Hong Kong, le solite fabbriche, o il solito sceicco con cui trattare e con il quale bere caffè nero, ma finalmente per una destinazione ignota.
Tutti sembrava avessero firmato, prima di partire, un patto per la vita con l'aeroporto, tenendo sottobraccio o in mano leggerissime ventiquattrore apparentemente vuote, valige dai colori vari, alcune con fiocchi, altre guarnite di luccichini per la situazione, giacconi, scarpe pesanti, sacchetti con le ciabatte per cambiarsi a bordo, orologi ben piantati sul polso, che se uno avesse pensato a toglierselo sicuramente sul braccio ci avrebbe trovato l'impronta, e i peli che in quel punto crescevano meno.
La nostra fanciulla cercò di depositare il bagaglio molto dopo rispetto alla valigia con i luccichini, era più forte di lei, li detestava, si attaccavano dappertutto.
Con passo energico, un po' dirottata nei suoi sentimenti, montò su un posto qualsiasi. Dopo non sapeva quanto (il suo polso non aveva neanche l'impronta di un orologio) ci fu l'atterraggio, quasi impercettibile, e il benvenuto del pilota, che aveva un che di inquietante.
Aveva pronunciato un nome sconosciuto, ma non fu questo a preoccuparla, piuttosto la desolazione che incontrò non appena uscita dall'aeroporto.
Immaginò che gli aerei decollassero e atterrassero molto lontano dai centri abitati, così cominciò a cercare un autobus, ma trovò solo una specie di contenitore senza tappo dal quale si potevano scorgere i palazzi che sfrecciavano veloci. Lì dentro era finita con tutti i passeggeri di quel volo premio, alcuni già evidentemente delusi si gingillavano col portachiavi della loro valigia: in quel posto c'erano già stati.
Nemmeno un colore sgargiante che non fosse artificiale, la fanciulla era un po' depressa ma allo stesso tempo pensava che tutto ciò potesse diventare interessante.
Ci aveva preso gusto, quella pellicola che impediva al sole di mostrarsi completamente poi assomigliava al sacchetto fumée che poggiava sopra ai suoi dolci per farli lievitare.
La fanciulla fu felice di lasciare tutta quella gente già delusa, con la quale non era riuscita a fare branco (e non ci teneva sul serio). Si guardò intorno e tutto era smisurato, per poter vedere la fine dei palazzi che la circondavano doveva torcere la testa all'indietro, e ancora non bastava.
Neanche la pubblicità era alla sua misura, ogni cosa sembrava non rivolgersi più agli esseri umani, ma ad un'altra specie, molto più alta e grassa.
Invece i passanti erano come lei, solo un po' più affrettati, evidentemente per evitare di guardarsi intorno.
Camminò e camminò, per poi posarsi su una panchina, dalla quale si vedevano altri palazzi e un colle, lontano. La fanciulla immaginò che dopo quel colle esistessero cose più confortanti, verde, animali. Prese dalla borsa un panino, e si fece cullare da ciò che ancora non vedeva.
Il vento fuori sembrava combattere contro la città, contro quell'angolo di città che da lì si poteva scorgere, e da cui poi nascevano tutti i campi, ed i paesi circostanti, con un'interruzione netta.
Le distanze col vento sembravano come invalicabili, era in corso una sfida che poco aveva a che fare con la materialità del mondo.
domenica 24 maggio 2009
domenica 3 maggio 2009
E se della terra noi abitassimo la superficie interna?
Le stelle sarebbero all'interno e noi vedremmo in esse miliardi di volte noi stessi. Troveremmo in quella distesa la nostra esistenza, e la giudicheremmo libera perché non vedremmo la chiusura del globo. Ma non solo.
Se noi vivessimo nella superficie interna, sotto i nostri piedi ci sarebbero altre stelle, queste davvero infinite, stavolta. Le eruzioni vulcaniche sarebbero esplosioni stellari e la lava conterrebbe piccoli alieni semi-liquidi.
Se noi abitassimo la superficie interna della terra la luna giocherebbe a bocce coi pianeti e il sole farebbe l'amore con l'atmosfera come due amanti in una cuccetta fiondata a migliaia di anni luce verso l'infinito che non vediamo. E noi saremmo i suoi bambini in grembo.
Se noi vivessimo nella superficie interna, sotto i nostri piedi ci sarebbero altre stelle, queste davvero infinite, stavolta. Le eruzioni vulcaniche sarebbero esplosioni stellari e la lava conterrebbe piccoli alieni semi-liquidi.
Se noi abitassimo la superficie interna della terra la luna giocherebbe a bocce coi pianeti e il sole farebbe l'amore con l'atmosfera come due amanti in una cuccetta fiondata a migliaia di anni luce verso l'infinito che non vediamo. E noi saremmo i suoi bambini in grembo.
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