martedì 29 dicembre 2015

Rivisitazione de “Riccioli d’oro e i tre orsi”


Il corpo di un enorme orso conteneva un bosco. Se lo era mangiato, un giorno che era troppo stanco per andare a caccia o a raccolta. Allora si era disteso sull’erba, aveva allargato bene la bocca e, a cominciare con il primo insetto fino all’ultima quercia, divorò tutto.
Tre api turiste: madre padre e apina, tutte entusiaste non appena ebbero saputo la notizia, decisero di fare i bagagli e di andare a vivere in quel bosco. I turisti adorano le cose bizzarre, e fare finta che siano stati loro a scoprirle per primi. Per precauzione comunque, decisero di trasferirsi per qualche tempo nella bocca. L’orso, per pigrizia, teneva spesso la bocca aperta, impegnato a dormire, e non  le ingoiava mai, le tre api.
Così loro passavano il tempo nella costruzione della nuova graziosa casetta, alle pendici dei molari.
Aveva tutto: le tapparelle per le correnti d’aria, il tetto, la cantina, lo studio dove potevano con calma concentrarsi per ora nella masticazione del polline…C’erano persino tre letti, uno grande per papà ape, uno medio per mamma ape e l’ultimo piccolino per l’apina. Vi si stava proprio bene, anche se del bosco si vedevano solo le cime degli alberi più alti sporgere dalla faringe.
Un giorno una bambina chiamata Riccioli d’oro e famosa per la sua curiosità passò di lì e, dato che la casetta era così bizzarra e che lei la sua ce l’aveva lontana lontana, decise di entrare.
Le api non erano in casa, erano andate a fare rifornimento di polline lasciando così raffreddare la pappa reale che mamma ape aveva messo nel pentolone e aveva poi versato su tre tazze: una grande, una media e una piccolina.

Riccioli d'oro fece intrusione nella casa e vide subito le tre tazzine sul tavolo che sembravano attendere lei.
Bevve dalla più grande, ma la pappa reale era troppo calda. Nella media era troppo densa.
Infine quella nella tazzina più piccola era perfetta e la bevve tutta in un sorso.
Poi si sentì girare la testa e vide tre sedie: una grande, una media, una piccolina.
Le provò tutte e tre ma decise che la più piccola le andava a pennello.
La sua mossa fu troppo azzardata! Infatti la sedia piccolina si ruppe in mille pezzi sotto il suo peso.

Ora era così stanca che pensò di salire le scale e andare a dormire.
Ovviamente trovò tre letti: uno grande, uno medio e uno piccolino.
Quello grande lo trovò troppo morbido, il medio troppo duro, e il piccolo lo trovò perfetto.
Si distese e in poco tempo si addormentò.

Le api erano già alle soglie di casa, si accorsero ben presto che qualcuno aveva bevuto nelle loro tazze, che si era seduto sulle loro seggiole, che aveva dormito...Ah! Qualcuno DORMIVA nel letto dell'apina!
Papà ape ronzò più forte del solito tanto che Riccioli d'oro si credette circondata da uno stormo di api in guerra e si svegliò.


Alla vista del padre ape e della sua famiglia le scappò un grido, lasciò le lenzuola ancora calde e scappò via.
Ma non fece in tempo ad andarsene lontano, perché l'orso chiuse all'improvviso la bocca e si trovarono tutti, Riccioli d'oro e famiglia di api, imprigionati dentro il bosco incantato.

venerdì 27 novembre 2015

L'impaccio

Son nove le cose che non mi son nuove:
La prima è sortire dal dubbio la vita
Seconda è girare senz’altra sortita
C’è poi recitar con incognita voce
Di strofe e di stanze portare la croce
Veder riesumate le cose buttate.
Per sesta le gesta di un simile a me
Per settimo ho visto leggendo anche te
Ottava l’amor come vuoto dispaccio

La nona è lottar dentro sé il proprio impaccio.

venerdì 30 ottobre 2015

A casa

Le luci del paese di fronte, sempre presenti, soffriggono sul lungolago del paese di fronte. Come ai bordi di una grande pentola mi trovo qui, sfogliando i miei fiori recisi di parole.
Tutta la casa è immersa nel sonno, trovo qualche vitalità nel guardare lo stuoino colorato, nel ricordare qualche pensiero di amici.
Oggi non c'è il temporale  e nella mia casa-barca  non si naviga. Visti dal porto, siamo solo appollaiati su alti tetti. Tante varietà di colori ci circondano. A volte ci sono i panni stesi, a volte no.
Certe volte trapela il suono di una musica ascoltata, o rimbomba una sedia che si sposta, una pentola che cozza contro il lavandino. Ci sono tre girasoli perenni, dentro, finti. Al momento non ricordo perché siano proprio tre. Ci sono le lettere e i numeri attaccati al muro, con a fianco il loro disegno o il loro pallino. Ci sono molte cose fatte a mano. Non è tutto perfettamente pulito. Il disordine cerca di trovare il suo perché,
Sorrido ai cuscini, al camioncino di legno della fattoria. Appena si entra, all'ingresso, appare una cucinetta di cartone costruita e colorata a mano, con una finestra che da su un paesaggio marchigiano. Al muro c'è un disegno astratto fatto dalla bambina. Al soffitto è ancora appesa una giostra di legno con gli animali, come quando era appena nata. C'è il quadro di un'amica, bianco e scuro, non molto colorato. Ci sono dei pupazzi e delle bambole. Non ci sono cose di valore comune.
Procedendo, al muro ci sono due antiche fotografie, un ventaglio moderno. Un mobile ad angolo che sembra un teatrino con il sipario tiene del cibo, sopra ci sono i tre girasoli. Perché tre?
Il tavolo della cucina si può chiudere, per risparmiare spazio, ma non lo chiudiamo mai. La cucina è composta da un frigo piccolo e da un lavandino tondo. Nella camera da letto, l'unica, il lettino della bambina è tondo anch'esso.
Dalla cucina delle finestre danno sul terrazzo. Sul terrazzo qualche pianta, non abbastanza, un tavolo, delle sedie, la raccolta differenziata non molto ben celata.
Lungo la spina dorsale di questa casa, una libreria e sopra, finalmente, gli eserciti di libri si reggono solitari e in massa, uniti e divisi, secondo categorie aperte.
Nel bagno il fasciatoio non è più sulla lavatrice, ci sono delle trousses, i fazzoletti, un asciugamano adagiato per mettere ad asciugare la siringa usata per la soluzione fisiologica. Sul lavandino c'è uno specchio, le lampadine sopra lo specchio non sono tutte uguali. C'è un bidet portatile, smontabile, e una vasca-doccia dove si può stare seduti, in cui a volte faccio il bagno insieme alla bambina. C'è il trono per il vasino, costruito dal mio compagno con del cartone e un copri-asse imbottito.
Nella camera da letto ci sono due letti singoli affiancati, con sopra due materassi singoli. Ci dormiamo come fosse un matrimoniale. Su due seggiolini ci sono dei vestiti, e anche negli armadi color verdino e crema. Dalla mia parte c'è uno specchio montato dietro l'anta. Sul comodino dei libri, delle creme. Ci sono cose che non c'entrano in certi posti che non c'entrano.
Adesso vado in bagno e c'è della carta igienica rosa profumata che io detesto ma dovrei essere grata comunque al mio compagno per essere andato a comprarla.
Le case sfitte, ecco ciò che non sopporto di pensare. Ci sono persone sfitte che andrebbero volentieri in una casa sfitta se ne avessero la possibilità, non la lascerebbero sfitta. Comunque l'abiterebbero con precauzione.
Invece lei è lì, sfitta, a prendere la polvere della malinconia e dell'egoismo. La polvere più nera. Marrone scura. Ad essere popolata dalla vegetazione e avere crepe sul tetto sono solo le più fortunate.
Penso a Ferro 3, a Pontiggia, alle "Vite di uomini non illustri".


domenica 25 ottobre 2015

Recentemente ho visto un film, di quei film che ti piacciono perché invogliano a scrivere. Mi succede anche dopo delle conversazioni con alcune persone. All’inizio, quando hai voglia di scrivere, non scrivi niente di eccezionale ma devi continuare perché, così come una psicoterapia, poi il bello viene, e il dolce.
Fino ad ora mi hanno licenziato tre volte, tutte e tre le volte per qualcosa che non sapevo fare. Intendo, non è che non ci provassi. La prima delle volte è stata in una gelateria. Non avevo, nel tempo da loro stabilito, imparato abbastanza bene a farcire dei coni. Da allora ho riprovato altre volte, sempre in casa, ero sicura, la mano si muoveva sciolta, il gelato rimaneva bello dritto su se stesso. Ricordo che una delle mie colleghe invece era stata accettata perché già brava a farcire i coni. È vero, mi hanno licenziata, ma da allora la mia manualità è molto migliorata.
Un po’ di tempo dopo quella gelateria ha chiuso. Mi chiedo. Se mi avessero tenuta, ormai che stavo imparando, e avrei imparato, lo so, come sarebbe andata?
La seconda volta è stata in un bar, per lo stesso motivo. Non ero spigliata, non sapevo fare i drink e mi sono cadute anche un po’ di portate. Insomma un disastro. Mi dovrei dire: non fa al caso mio.
Però da allora in situazioni simili mi sento più sicura, so fare il caffè e credo di saper fare anche un cappuccino nelle macchine dei bar. Sono più attenta e più precisa. Cucino sempre meglio.
Quindi, mi chiedo: se mi avessero tenuta?

Ok, forse dovrei pensare: se tenessero tutte quelle imbranate come me, andrebbero in fallimento. In due weekend però, non mi sento di aver espresso tutta me stessa. Il lavoro non aspetta e, soprattutto, ti vuole già formato. La ricerca di lavoro è un po’ come un eterno purgatorio, una prassi nella quale ti migliori perdendo allo stesso tempo fiducia in te stessa. Fantastico.

martedì 16 giugno 2015

Note (Continua...)

Siamo perennemente sull'isola deserta, là dove sei tu da solo con le tue ore di lavoro e nessuno può sostituirti. Perché non c'è nessun altro. Tante sono le attività che ti risparmieresti, magari è il tuo corpo a chiederne sempre di nuove, magari il tuo cervello, la tua apprensione per il futuro.
Non puoi ordinare ad altri di farlo, siamo tutti nella solita isola deserta. Quando ti giri nella foresta, perché un nuovo pericolo incombe, perdi il tramonto che squarcia il cielo in divine sfumature.
Il tuo viso però, coraggioso per dovere, riflette un po' di quel tramonto, per restituirlo incoscientemente come un'energia che scorre in tutto il mondo.
Dunque, è proprio la coscienza il problema. Una maschera, un inganno, la coscienza che pretende il protagonismo e che ora mi fa sentire così schiacciata. Potessi far tacere il mio stato di coscienza mi riverserei nel mondo. Faccio esercizio viaggiando in ogni sguardo, oggi che piove e il lago ribatte sulle braccia nude.

lunedì 15 giugno 2015

Note della commessa


Alle persone piace essere prese in giro. Esse adorano essere circondate di lusinghe rivolte al loro portafogli, adorano essere imbottite di proposte guidate non dall’attenzione filantropica ma puramente dal desiderio di vendere. Le commesse si prendono cura a pagamento, sempre mantenendo una certa distanza, sia chiaro.
Da qui vedo passare tanta gente, tanti sguardi da carpire, affollamenti umani, gruppi di turisti, di manifestanti, di motoraduni, di venditori come me. Ognuno è preso dalle proprie smanie, chi più pressato, chi meno.
Molti guardano gli annunci mortuari, ed è come se guardassero un’altra schiera di gente, sono loro, loro meno loro. Quelli che passano. Senza accorgersi che anche gli osservatori, almeno dal mio punto di vista, passano in modo altrettanto definitivo. Ecco il gioco d’immedesimazione dell’essere umano, che si finge morto mentre vive, muore per sentire la vita, butta le cose e i ricordi per poter vivere e ridere.
Io dovrei prenderla tranquillamente, sforzarmi affinché riesca in questo lavoro fuori da me.
Però, allo stesso tempo, sento di non riuscire ad approfittare pienamente degli eventi per una crescita personale.  Guidata da esigenze odierne e materiali ho dimenticato di osservare da scrittrice. Poi, quando comincio, già devo interrompere.
Tardi. Cosa resta della stanchezza? Il dolore è prolifico, ma la stanchezza?
La stanchezza sorella dell’anemia, dell’ignavia. Posso spingere la stanchezza fino a produrre dolore. Se puoi portare il dolore al di sopra della stanchezza puoi anche nutrire il tuo Dio del Fare. Perché è diventato un Dio, vero?

L’esperienza è già finita. In una catena di esperienze così brevi uno finisce col tirare poche conclusioni e scoprire che la riflessione che voleva fare è in realtà una riflessione più ampia su tutta la propria vita di incerta.
Non posso più leggere un libro. Non che sia la Titolare a negarmi il permesso, lei non ne è nemmeno a conoscenza; il problema è che, ogni volta che comincio a leggere, i miei pensieri cominciano a correre e a liberarsi come dei muscoli aerei, e se penso scrivo. Pensiero e scrittura sono in me come la mente e l’azione, quasi un automatismo che non c’è più. Avere la nostalgia di un automatismo. Sto qui, giorni e giorni, a piegare vestiti su vestiti, e rido di questi nuovi automatismi che un giorno saranno, anch’essi ne sono certa, per me qualcosa di antico.
Piegare non ha niente a che fare con lo scrivere, perciò il mio spirito e il mio corpo devono ammettere questo movimento come se fosse altrettanto necessario, cosa che di fatto è, per vivere, anche se non può esserlo fino in fondo. Potrei cercare di inventare che l’azione di piegare i vestiti abbia in sé qualcosa di poeticamente irrinunciabile, un po’ come il disporre ogni lettera sulla propria riga, un po’ come la lima perfezionistica della grammatica, questo però non mi darebbe sollievo e non porterebbe a niente se non potessi, e di fatto non posso, applicarlo allo scrivere ma solo al piegare.
Scrivere diventa così un’azione proibita, un’azione da insonne con diversi inquilini nella mente che mi incitano a smettere, o a continuare, a seconda del caso.
Nel periodo delle Avanguardie novecentesche si cercava di negare l’arte stessa attraverso l’arte, così io rifletto ancora sul mio stato pur avendolo già negato. La Titolare non è più mia titolare da una settimana almeno, avendo lei modificato gli accordi presi in precedenza tra noi.

Adesso è una sorta di patto “a chiamata”, sempre in nero, naturalmente, ma non mi stupisce che, dal giorno delle modifiche, non mi abbia più chiamato. Secondo lei, la mia collega ed io dovremmo compatirla in quanto datrice di lavoro che si sforza in un piccolo paese di tenere aperti due negozi di vestiti. Non mi dispiacciono questi giorni di vuotezza nei quali, in ogni caso, ho deciso di continuare a scrivere.