sabato 7 marzo 2009

Leggo Bernanos, prima in italiano, poi ho trovato l'originale francese in una libreria-supermercato. Vi ho trovato anche il Libro dell'inquietudine di Bernardo Soares di Pessoa. Inquietudine l'ho sempre pronunciata Inquie-ti-tudine, molto bello, forse troppo fiorito.
In Pessoa ho trovato questo passo, ma ora non credo che in un libro, cosa piena di florilegi, ma soprattutto cosa, ci sia niente di che.
No, non ho timore delle cose, non nascondo che questo libro mi abbia entusiasmato, svelato, corrotto. Corrotto, forse questa è la parola giusta. Proprio per questo, proprio per questo, è sospetto. Non credo nell'origine pura, solo che il nulla mi dissolve.
"Diario di un curato di campagna" mi fa riflettere sullo stacco fra le gesta e le parole, sulla sincerità, sulla letteratura. Insomma, su di me. E' giusto chiarificare se stessi con un diario?
Dicevo in Pessoa ho trovato questo passo.
Questa è una giornata nella quale mi pesa, come un ingresso in carcere, la monotonia di tutto. Ma la monotonia di tutto non è altro che la monotonia di me stesso. Ciascun volto, anche lo stesso che abbiamo visto ieri, oggi è un altro, perché oggi non è ieri. Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n'è mai stato un altro uguale al mondo. L'identità è solo nella nostra anima (l'identità sentita con se stessa, anche se falsa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua.
Il mio desiderio è fuggire. Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti , queste abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia inorganica simulazione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo. Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna, mi può dare questo. Purtroppo soltanto la mia volontà non me lo può dare.
(...) (...) Io stesso, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me, osere forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato che la noia mi appartiene, essa sarebbe sempre presente? Io stesso, che soffoco dove sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la malattia è nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano?
Io stesso, che ardentemente sogno il sole puro e i campi liberi, il mare visibile e l'orizzonte largo, chissà se mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell'angolo o a non scambiare il buongiorno con l'ozioso barbiere.
Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato sa un'improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il rito casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle.

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