sabato 7 marzo 2009

Mi sembri una mosca, e ti muovi senza senso su un vetro bianco, che magari è il vetro di una finestra. Perché non ti trasformi? Non è troppo tardi per riprendere le tue azioni precedenti.
Mi alzo, mi guardo i vestiti, ci ho dormito su, a quanto pare, ho l’aria di un passero disperato. Calpestando bene il pavimento arrivo al bagno, e mi appoggio pesantemente al water.
Movendo velocemente i giornali ne trovo uno che mi piace, le dita e il petto mi dolgono, come se avessi suonato per tutta la notte al piano la canzone che scrisse mia moglie in aprile mentre era ubriaca.
Sei pieno di paesaggi dentro di te, come un pozzo profondo e come gli occhi delle balene, nonostante io non ne abbia mai vista una. Ora mi accontento di tirarti la camicia e di sorriderti, senza svegliare il lupo dormiente a cui facevi la guardia.
Mi aveva detto questo, eravamo in un locale di notte, in un chiarore che può avere la notte a volte, non sempre, ad esempio quando hai davanti una donna densa che quando parla è splendida e le cose che dici ti sembrano intuizioni che ti faranno andare avanti ancora per una notte. Pensi.
E lei come un libro spalancato cominciava a vergognarsi di sentirsi nuda in quel locale affollato da gente che si appiccicava agli angoli e tesseva le sue ragnatele come ragni. Ma ero solo io a vederla nuda, e realmente ad avere il contatto delle sue ginocchia. E a mantenerlo, come fratello e sorella.
No, come la cupola di una cattedrale divisa in due pezzi, che non avevano bisogno di legami per capire che stavano bene insieme.
Due bambine si accalcavano sul palchetto per cantare. Qualche verso. Poi non si ricordavano. Un’altra canzone.
Tiro giù l’acqua, l’arcobaleno nero nei miei occhi, lucidi come una ferita, il mio capo, vuoto come un teschio, ho in mano il sacchetto di semi di fiori che mi fa sorridere e fa fiorire qualcosa dentro di me, chissà com’è finito qui in bagno..
Come complice dei piccoli fiori che stanno fremendo dentro i bulbi profumati mi lavo di fretta le mani e corro in giardino. Già, ecco lì la vicina, con gli occhi che fermano la situazione, con le mani piccole e le emozioni grandi.. Faccio un passo avanti, mi vede e fa un passo di lato, per giocare a nascondino tra la siepe, io allora faccio un passo di lato, come un re giardiniere, che coltiva gladioli sulla sua piccola casella degli scacchi. Lei mi mangia perché mi trova e mi guarda, aggrottando le sopracciglia. Io le mostro raggiante il sacchetto di semi. La madre la richiama da dentro la casa. Lei si sposta la frangia con le mani e indica con sguardo incuriosito lo spazio di terreno che è rimasto vuoto.
Io faccio sì con la testa, lei sorride e rientra.

E’ notte. Immagino che questo sonno, che si espande in me come iniettato, che pure è una cosa normale, sia invece qualcosa di speciale: il corpo di mia moglie che mi copre, che mi avvolge e chiude piano le mie palpebre, come in un gioco con lei bambina. Con io bambino.
Uno sbadiglio: lei mi spalanca la bocca come per un bacio e, guardialinee di un mondo incantato, la osservo, la seguo, mentre prende i rami di un’imbarcazione ignota.
Mi giro nel letto, se continuo a pensare così farò brutti sogni.

Un fringuello posato sull’edera arrossata, vicino alla mia finestra, mi ha svegliato. È bastato questo a svegliarmi, perché oggi devo andare a prendere mia moglie alla stazione, come quando, quindicenne, le andavo incontro e mi raccontava d’un fiato il suo viaggio. Ed io non resistevo e la tiravo su e la facevo svolazzare, lasciando che prendesse i paesaggi nuovi del paese, che capisse com’era cambiato, mentre io ero rimasto lo stesso.
Prendo la bicicletta, e, salutando la mamma, che non avevo mai visto coperta di neve come oggi, con il piede lascio il gradino bianco e mi getto nella strada. La attraverso tutta come una bevanda, godendomi finalmente il mattino come fosse fuso di latte e tè.
Ho lavorato tutta la settimana, con diverse tentazioni: cercare le parole di una ninna nanna spagnola, cercare quell’assassino che spargeva veleno per i topi nei campi, e lasciava gatti moribondi in giro, comprare quella nuova carta lucida e sinuosa in vetrina, perfetta per fare i miei origami, finire quel libro che la notte, dalla stanchezza, non riuscivo neanche ad aprire, sì, finirlo, o regalarlo al barbone che passava sempre nei marciapiedi, tra le pareti grigie e panna.
Invece ho: osservato di nascosto la commessa del supermercato, mentre metteva a posto i surgelati, comprato le medicine per la mamma, sistemato cartacce in un posto dove nessuno mi vuole, letto il giornale tutti i giorni, fatto le pulizie.
All’angolo della stazione c’è una ragazza con molti bracciali ed un vecchietto con gli occhi come pallottole, incavati, come affacciato dentro di sé. Muove i piedi come se camminasse sopra un palloncino.
Forse sono già vecchio, perché mi viene voglia di attaccare bottone con lui, che, a dir la verità, sembra troppo impegnato a camminare.
Una farfalla bianca spiega la luce al sole, e lui le permette di appoggiarsi su un suo ramo, perciò sembra che stia camminando su un filo trasparente.
La stazione è un ambiente cotto, che mi turba, soprattutto perché non ci puoi mettere fiori. Forse sono un po’ claustrofobico, ma non importa. Cammino, sotto i cartelloni luminosi e penso che la stazione potrebbe essere più piccola, e regolata da gruppi di elfi. Un uomo mi si ferma davanti, ah, deve passare. Sì è solo trovato davanti a me per caso. Sarebbe stato facile passare un po’ più in là, ma ognuno ha i suoi limiti.
Se io avessi una valigia così grande potrebbe contenere cose per ogni evenienza: cappelli, caramelle, travestimenti, sassi lisci, panini, cartine, cartoline, vasetti, bustine di tè, mia madre. Ehehe.
Ma io ho molte valigie, tutte piccole. Forse un giorno le cucirò insieme.
Forse di mia madre spunterebbe fuori il fermaglio dei capelli, così lungo…
Mi appresto a fare dietro front, dopo un ricordo che mi ha dato un fremito.

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