A mensa si parla spesso ma a volte le frasi si bloccano, si fermano, fioccano urli di coscienza, di responsabilità animalesca. Si arriva a toccar corde poco commensali, si parla della visione esterna, dell'abbuttamento e della sua esistenza (o n'esistenza), della volontà. Ma non in ciò di cui si parla sta ciò che si dice. Nel chinare la testa, nel mancare (per il rumore) qualche parola definita, nel legame interiore dell'affetto di fondo. Allora ci si accorge e ci si ricorda che la mensa è tutto un mondo, che non possiamo rotearci attorno senza toccarlo od esserne condizionati. Nell'atto della nascita sta la nostra prima volontà. Come già ne parlavo con alessandro. Eppure dopo avviene una sorta di pace: di succedersi di nascite e di disfacimenti, nei quali possiamo ben intuire il nostro ruolo, forse. Il nostro ruolo è non aver nessuna importanza, perciò possiamo evitarci stati d'animo infruttuosi che non ci piacciono sgomentosi irritanti.
Tutto dipende dalla nostra volontà. Ma la nostra volontà dipende dal tutto. Il nostro livello non è che il livello 0, in cui possiamo chiudere la penna in un bel cerchio.
Ciò non mi rattrista, ha ragione dimitri, occorre provare, perlomeno, a togliersi di dosso queste pelli morte. Il tiepidume atroce del sentirsi abbuttati.
Scuotersi appena dalla verità con la verità, ritrovarsi felici e coscienti e pure pieni, pieni di spasso.
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