Quando la città di Parigi sprofondò.
Era chiaro alla prima occhiata che il professor Vojislav non fosse dei nostri, né della nostra città.
Giorno e notte potevate trovare nelle tasche della sua giacca un fazzoletto bianco come un velo e, per le vacanze scolastiche, faceva i bagagli e partiva per Parigi, da dove ritornava poi smagrito e pallido d'emozione.
Era una curiosità rara in una città in cui la gente non partiva se non eccezionalmente, tranne che per andare ai bagni.
Il professor Berbeski era, si sarebbe detto, totalmente assorbito dalla città di Parigi.
Ecco perché non reagiva quando, vedendolo passare nel suo abito elegante i ragazzacci della notte gridavano "Pederasta!". Ci parlava del Café de Flore, di Picasso, con il quale era migliore amico, e lo chiamava "mon ami Pablito", del Quai des Tournelles vicino alla Senna, dell'organo di César Franck e del calvados ai "Deux Magots", della cioccolata calda che beveva a la Coupole, di Juliette Greco e di mille meraviglie inaudite, per poi aggiungere, con un gesto della mano:
"Signori, è ora che ritorniamo al nostro povero sciancato Vuk per la qual cosa oltretutto vengo pagato nel vostro borgo pittoresco che puzza d'acquavite a basso grado alcolico e di grigliate."
Ecco il professor Vojislav N. Berberski!
Si fermava tra i banchi e sferrava uno schiaffetto sul cranio rasato di fresco di Pufko, solo per il gusto di sentir risuonare un volgare cranio balcanico e Pufko si sentiva particolarmente lusingato che il professore avesse scelto la sua testa e non un'altra!
Era il tempo delle vacanze invernali e, come suo solito, il professore partì per Parigi. Era per noi meno penoso sopportare l'eterna passeggiata serale nel Corso e l'unico film in programmazione per quindici giorni perché conoscevamo qualcuno per il quale andare a Parigi era altrettanto semplice che per noi andare al mercato.
Mi ricordo che quell'inverno avevo i palmi tagliuzzati dalle gabbie d'imballaggio metalliche piene di bottiglie di latte, che noi distribuivamo ai piani, Pufko e io.
Un giorno, quattordici giorni dopo la partenza del professore, ricevemmo una cartolina da Parigi, con i Bouquinistes sul bordo della Senna.
Una frase pomposa diceva:
Sono sulla terrazza de la Rotonde e mi riposo dalla patria. V.N. Berberski. P.S.= ritorno tra una decina di giorni.
L'indomani ci cambiarono di settore e fummo incaricati della via Skerlìc, dal numero 10 al 23.
E quale stupore quando, come fatto uscire di fretta da un sonno durato cinque anni, da dietro una porta che aveva sull'etichetta il nome di un altro, vedemmo uscire come un topo dal suo buco il professor Berbeski in persona!
Il suo viso sempre rasato di fresco era stavolta coperto da una barba di quindici giorni, stranamente brizzolata.
Il figlio di Parigi era in piedi davanti a noi in un pigiama sporco e sgualcito, a piedi nudi sul cemento.
- Allora vi siete immaginato tutto? gridò Pufko rispingendo Berbeski nella miserabile piccola camera piena di conserve di goulash vuote e di croste di pane.
In mezzo a questo guazzabuglio oscillavano, come fantasmi appesi al soffitto, gli abiti eleganti del professore imballati in protezioni di plastica.
- Allora Parigi non esiste? Né Juliette Greco, né i bouquinistes, né tutta questa merda?
Con un gesto febbrile il professore cercò di stringere attorno a lui il pigiama a righe al quale mancavano tutti i bottoni e che scopriva una pancia bianca con qualche rotolino e delle livide gambe pelose.
Fuori di sè, urlando, Pufko continuava a scuoterlo fino a rispingerlo accanto al letto, dove il falso parigino si fermò.
Preso da una violenta agitazione, Pufko gli sputò in faccia tutto, che aveva creduto ciecamente che ci sarebbe arrivato, lui, un giorno, fino a questa città di Parigi, e tutto il resto, mentre lui - amico personale di Picasso - si rimpinzava tranquillamente di gulash riscaldato in via Skerlic e lo lasciava, lui Pufko, senza la minima prospettiva di uscirsene un giorno da quel buco, e non solo lui ma ogni altro ragazzo della nostra classe!
- Per l'amor del cielo, signori! Supplicava Berberski, stropicciandosi il pigiama. La padrona di casa vi sentirà! Calmatevi! Prendete una sigaretta! Prendete, anche se come professore non dovrei...prendete, non vergognatevi...
Le sigarette cadevano dalla scatola scossa freneticamente.
Ci sedemmo sul suo letto sfatto e ci accendemmo ciascuno una Drava, che ricordava al nostro professore le Gitanes, parole sue.
Avevamo l'aria proprio miserabile, circondati da posaceneri debordanti in cui dei mozziconi emergevano dalle ceneri della città di Parigi.
Siamo rimasti là cinque minuti o duecento anni, non so più ben dirlo, pensando al nostro caro professore.
Il suo guardaroba stravagante e la sua eterna solitudine gli valevano l'antipatia di tutta la città, presa dall'irritazione impotente che è quella del toro che si abbatte ciecamente verso il drappo rosso.
Noi l'amavamo perché non era dei nostri e sapeva lottare da solo contro tutti.
E le sue brillanti lezioni! Per lui Hemingway era "il giornalista ubriaco e barbuto di Oak Park", Tennessee Williams "uno zucchero d'orzo sudista che da anni si masturba sulle soglie di un'idea." Mentre i nostri autori, argomento del suo insegnamento, avevano semplicemente "l'andatura di elefanti in un negozio di porcellane". Inoltre, era il solo a chiamarci "signori" a differenza della massa di insegnanti incompetenti le cui sacocce da professori scoppiavano, ripiene di tutto e in particolare di gallette grasse, di teste di cipolla, pacchetti di margarina e compiti degli allievi.
Ecco come finiva tutto; eravamo seduti là, in questo antro segreto, nel bel mezzo dello sprofondare del mondo, tra le rovine della tour Eiffel, sotto gli alberi abbattuti degli Champs-Elisées. C'est la vie!
- Mi dispiace, signori, mi dispiace molto. Ma doveva finire così un giorno o l'altro...disse Berberski. Mi dispiace davvero, ma quei citrulli in sala dei professori mi avrebbero divorato se non ci fosse stata 'sta faccenda di Parigi; non potete ancora capire! Ma ci arrriverete certamente, un giorno, voglio dire a Parigi!Ci credo fermamente! Ve lo giuro!
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