Il mare come una musa scontrosa rigetta tutte le poesie che trova, siano esse tronchi, reti, sassi e vetri. Il mare più grosso è dentro di me, lo guardo come una bambina da dietro un vetro appannato. Ci sono carezze alle quali non è giusto sottrarsi.
Raccolgo con il pane lo sciroppo d'acero rimasto nel piatto. C'è in me un po' del quadrupede, ho due zampe al mare e due in montagna, la montagna dalla quale la mattina presto vedevo e bevevo senza dormire.
Bevevo liquido rosa dell'alba, a stomaco vuoto, un sapore che non posso più sentire adesso. Le zampe che erano al mare invece nuotavano già, come se cercassero tra i vestiti di una bancarella, spostando l'acqua e rinnovando il disordine.
Fatico a trovare quella forma che sembrava adatta a me, forse posso fare tutto, forse non dovrei fare niente. Anche il poco asfalto che mi slanciava giù dalla piccola montagna appenninica, un colle piuttosto, oppure la mente mi si confonde, e ritornano i colli dell'altra mia vita, ritorna il mio viso che ho imparato a truccare, a impiastricciare, anche l'asfalto sembrava armonioso.
Come dentro a volte appaiono le durezze del carattere, quelle tanto insegnate. Ma chi ha il coraggio di deprecarle? Sono queste che ci salvano, persino dal linguaggio. Ci salvano però senza torpore.
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