lunedì 16 marzo 2009

Lui solea dir che gli era sciagura/ e tornava a cader senza paura

Alla metà dell' "Orlando furioso" Orlando diventa pazzo. Colui che gli va a recuperare il senno è Astolfo.
Egli è figlio di Ottone di Inghilterra e quindi re ereditario. E' molto ricco ma ancor più nobile e gentile. E' bellissimo ma soprattutto è volenteroso.
Questa sua qualità lo condanna ad essere trasformato in pianta di mirto dalla fata Alcina, in un'isola che dalle feconde qualità ricorda la sicilia. Lì lo ritrova Ruggero, perché attacca per caso il suo ippogrìfo ad un ramoscello. L'ippogrifo si dimena e per liberarsi dalla corda tortura la pianticella, che inizia a lamentarsi, dopodiché si presenta.
Astolfo è un personaggio che nasce nel meraviglioso, e che se ne alimenta.
Il Boiardo ci dice che era un personaggio comico, keatoniano.
Ci racconta che aveva la fama da buon cavaliere, ma che non faceva che cadere dal suo cavallo. Egli diceva che era per colpa della sua sfortuna. Ma cadeva sempre. Tanto che Re Carlo, quando tocca in sorte ad Astolfo una missione importante, esclama: "O Dio, dè mandaci altro aiuto!"
E' uno dei pochi cavalieri che ci sono narrati che rifiuta la ventura, propostagli da un eremita. Il suo rifiuto riceve in risposta una benedizione da parte dell'eremita, della quale lui non ha certo bisogno.
Astolfo sa che non potrà mai essere scalfito, anche grazie ad un libro di incantesimi che porta con sé. Questo, unito alla sua determinatezza, gli permette di camminare attraverso i luoghi degli incanti, dei pericoli e delle meraviglie. Il suono della sua tromba spaventa le bestie fatate del bosco, facendo pensare a chissà quale maleficio!

Dei fulmini, inferiori in numero ai sogni

A volte ricevo delle visioni cruente, come se qualcosa di soprannaturale si nascondesse dietro la tenda della mia memoria.
Non so proprio da dove provengano né come spiegarle. Cose da risvegliare Tasso, o Boiardo. Sento come degli assalti dovuti a residui di immaginazione o non so cosa. Forse sono racconti mancati. Però sono violenti, come fulmini o spettri.
Forse sono cose che vorrei fare, rivoluzioni che finalmente dovrei compiere, in me.
Invece di descriverle qui dovrei parlarne con qualcuno, ma per ora non so come.
Certe volte io sono la protagonista delle visioni, vedo le mie palpebre che si scoperchiano, mi strappo gli organi interni, o cose del genere. Mi taglio in un colpo solo tutte le ciglia.
Riesco a capire un po' grazie a questi sogni diurni gli autori di film o romanzi dell'orrore, come sentono di sfogare quel loro lato. Io lo sfogo inventando e scrivendo ma evidentemente non è abbastanza.
Ritorna la questione che sono fatta per il teatro, che la mia sublimazione sta lì. Forse no, forse dovrei scrivere di più, impegnarmi in questa rivoluzione.
Forse dovrei aprirmi di più agli altri, cosa che a pensarla mi fa stare un po' male che io debba pensarla ma...Sono a buon punto se già prendo in considerazione tutto ciò, se cerco di affondare le unghie sul ghiaccio. Tutto questo prima non era realizzato. Inventavo modi per spassarmela e basta.
Sono stupita del luogo dove il mio spirito ha fatto irruzione, ora studierò le mie mosse.

lunedì 9 marzo 2009

ascolto

Della musica che pende dalle mie cuffie. Non è una musica qualunque. Aspettava me. Mi commuovo o forse no. Qualcuno che segue la mia strada c'è.
Quella musica da cui pendo io e tutto questo strascico che non volendo mi porto dietro. Una musica che non avevo mai sentito.

sabato 7 marzo 2009

Solo ora rileggendo mi accorgo perché è impossibile che io scriva un vero diario. Per quanta sincerità e chiarezza ci sia in me, tutto deve essere detto per anticamera. Per anticamera, insomma, metafora.
Alla maturità, uscita fuori dal tema che mi aveva spolpata per mancanza di spunti
"La poesia sta nel non essere compresi
nel non essere compresi sta la poesia" scrissi.

Poi presi il massimo nel tema, pur sentendomi di aver scritto melmose e piatte cartacce. Dissero che l'avevano letto ad alta voce in commissione.

Ma se viene a mancare il linguaggio, cosa c'è?
Se viene a mancare il libro stesso, cosa faccio, ora, in questa casa mentre faccio uscire in giardino le cagnoline e faccio loro il bagno. Il mio rapporto stesso con loro sarebbe un linguaggio. E senza di esso?
Se ascoltassi a fondo la vocina dentro di me che mi spinse a scrivere quei due versi..dove sarei io?
Leggo Bernanos, prima in italiano, poi ho trovato l'originale francese in una libreria-supermercato. Vi ho trovato anche il Libro dell'inquietudine di Bernardo Soares di Pessoa. Inquietudine l'ho sempre pronunciata Inquie-ti-tudine, molto bello, forse troppo fiorito.
In Pessoa ho trovato questo passo, ma ora non credo che in un libro, cosa piena di florilegi, ma soprattutto cosa, ci sia niente di che.
No, non ho timore delle cose, non nascondo che questo libro mi abbia entusiasmato, svelato, corrotto. Corrotto, forse questa è la parola giusta. Proprio per questo, proprio per questo, è sospetto. Non credo nell'origine pura, solo che il nulla mi dissolve.
"Diario di un curato di campagna" mi fa riflettere sullo stacco fra le gesta e le parole, sulla sincerità, sulla letteratura. Insomma, su di me. E' giusto chiarificare se stessi con un diario?
Dicevo in Pessoa ho trovato questo passo.
Questa è una giornata nella quale mi pesa, come un ingresso in carcere, la monotonia di tutto. Ma la monotonia di tutto non è altro che la monotonia di me stesso. Ciascun volto, anche lo stesso che abbiamo visto ieri, oggi è un altro, perché oggi non è ieri. Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n'è mai stato un altro uguale al mondo. L'identità è solo nella nostra anima (l'identità sentita con se stessa, anche se falsa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua.
Il mio desiderio è fuggire. Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti , queste abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia inorganica simulazione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo. Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna, mi può dare questo. Purtroppo soltanto la mia volontà non me lo può dare.
(...) (...) Io stesso, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me, osere forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato che la noia mi appartiene, essa sarebbe sempre presente? Io stesso, che soffoco dove sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la malattia è nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano?
Io stesso, che ardentemente sogno il sole puro e i campi liberi, il mare visibile e l'orizzonte largo, chissà se mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell'angolo o a non scambiare il buongiorno con l'ozioso barbiere.
Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato sa un'improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il rito casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle.
Mi sembri una mosca, e ti muovi senza senso su un vetro bianco, che magari è il vetro di una finestra. Perché non ti trasformi? Non è troppo tardi per riprendere le tue azioni precedenti.
Mi alzo, mi guardo i vestiti, ci ho dormito su, a quanto pare, ho l’aria di un passero disperato. Calpestando bene il pavimento arrivo al bagno, e mi appoggio pesantemente al water.
Movendo velocemente i giornali ne trovo uno che mi piace, le dita e il petto mi dolgono, come se avessi suonato per tutta la notte al piano la canzone che scrisse mia moglie in aprile mentre era ubriaca.
Sei pieno di paesaggi dentro di te, come un pozzo profondo e come gli occhi delle balene, nonostante io non ne abbia mai vista una. Ora mi accontento di tirarti la camicia e di sorriderti, senza svegliare il lupo dormiente a cui facevi la guardia.
Mi aveva detto questo, eravamo in un locale di notte, in un chiarore che può avere la notte a volte, non sempre, ad esempio quando hai davanti una donna densa che quando parla è splendida e le cose che dici ti sembrano intuizioni che ti faranno andare avanti ancora per una notte. Pensi.
E lei come un libro spalancato cominciava a vergognarsi di sentirsi nuda in quel locale affollato da gente che si appiccicava agli angoli e tesseva le sue ragnatele come ragni. Ma ero solo io a vederla nuda, e realmente ad avere il contatto delle sue ginocchia. E a mantenerlo, come fratello e sorella.
No, come la cupola di una cattedrale divisa in due pezzi, che non avevano bisogno di legami per capire che stavano bene insieme.
Due bambine si accalcavano sul palchetto per cantare. Qualche verso. Poi non si ricordavano. Un’altra canzone.
Tiro giù l’acqua, l’arcobaleno nero nei miei occhi, lucidi come una ferita, il mio capo, vuoto come un teschio, ho in mano il sacchetto di semi di fiori che mi fa sorridere e fa fiorire qualcosa dentro di me, chissà com’è finito qui in bagno..
Come complice dei piccoli fiori che stanno fremendo dentro i bulbi profumati mi lavo di fretta le mani e corro in giardino. Già, ecco lì la vicina, con gli occhi che fermano la situazione, con le mani piccole e le emozioni grandi.. Faccio un passo avanti, mi vede e fa un passo di lato, per giocare a nascondino tra la siepe, io allora faccio un passo di lato, come un re giardiniere, che coltiva gladioli sulla sua piccola casella degli scacchi. Lei mi mangia perché mi trova e mi guarda, aggrottando le sopracciglia. Io le mostro raggiante il sacchetto di semi. La madre la richiama da dentro la casa. Lei si sposta la frangia con le mani e indica con sguardo incuriosito lo spazio di terreno che è rimasto vuoto.
Io faccio sì con la testa, lei sorride e rientra.

E’ notte. Immagino che questo sonno, che si espande in me come iniettato, che pure è una cosa normale, sia invece qualcosa di speciale: il corpo di mia moglie che mi copre, che mi avvolge e chiude piano le mie palpebre, come in un gioco con lei bambina. Con io bambino.
Uno sbadiglio: lei mi spalanca la bocca come per un bacio e, guardialinee di un mondo incantato, la osservo, la seguo, mentre prende i rami di un’imbarcazione ignota.
Mi giro nel letto, se continuo a pensare così farò brutti sogni.

Un fringuello posato sull’edera arrossata, vicino alla mia finestra, mi ha svegliato. È bastato questo a svegliarmi, perché oggi devo andare a prendere mia moglie alla stazione, come quando, quindicenne, le andavo incontro e mi raccontava d’un fiato il suo viaggio. Ed io non resistevo e la tiravo su e la facevo svolazzare, lasciando che prendesse i paesaggi nuovi del paese, che capisse com’era cambiato, mentre io ero rimasto lo stesso.
Prendo la bicicletta, e, salutando la mamma, che non avevo mai visto coperta di neve come oggi, con il piede lascio il gradino bianco e mi getto nella strada. La attraverso tutta come una bevanda, godendomi finalmente il mattino come fosse fuso di latte e tè.
Ho lavorato tutta la settimana, con diverse tentazioni: cercare le parole di una ninna nanna spagnola, cercare quell’assassino che spargeva veleno per i topi nei campi, e lasciava gatti moribondi in giro, comprare quella nuova carta lucida e sinuosa in vetrina, perfetta per fare i miei origami, finire quel libro che la notte, dalla stanchezza, non riuscivo neanche ad aprire, sì, finirlo, o regalarlo al barbone che passava sempre nei marciapiedi, tra le pareti grigie e panna.
Invece ho: osservato di nascosto la commessa del supermercato, mentre metteva a posto i surgelati, comprato le medicine per la mamma, sistemato cartacce in un posto dove nessuno mi vuole, letto il giornale tutti i giorni, fatto le pulizie.
All’angolo della stazione c’è una ragazza con molti bracciali ed un vecchietto con gli occhi come pallottole, incavati, come affacciato dentro di sé. Muove i piedi come se camminasse sopra un palloncino.
Forse sono già vecchio, perché mi viene voglia di attaccare bottone con lui, che, a dir la verità, sembra troppo impegnato a camminare.
Una farfalla bianca spiega la luce al sole, e lui le permette di appoggiarsi su un suo ramo, perciò sembra che stia camminando su un filo trasparente.
La stazione è un ambiente cotto, che mi turba, soprattutto perché non ci puoi mettere fiori. Forse sono un po’ claustrofobico, ma non importa. Cammino, sotto i cartelloni luminosi e penso che la stazione potrebbe essere più piccola, e regolata da gruppi di elfi. Un uomo mi si ferma davanti, ah, deve passare. Sì è solo trovato davanti a me per caso. Sarebbe stato facile passare un po’ più in là, ma ognuno ha i suoi limiti.
Se io avessi una valigia così grande potrebbe contenere cose per ogni evenienza: cappelli, caramelle, travestimenti, sassi lisci, panini, cartine, cartoline, vasetti, bustine di tè, mia madre. Ehehe.
Ma io ho molte valigie, tutte piccole. Forse un giorno le cucirò insieme.
Forse di mia madre spunterebbe fuori il fermaglio dei capelli, così lungo…
Mi appresto a fare dietro front, dopo un ricordo che mi ha dato un fremito.