Rivolta di dio
(da "Ossian", "Rivolta")
Teheran 1958
Se fossi dio,
chiamerei gli angeli
per far liquefare
la moneta del cielo
nel forno delle tenebre.
Ordinerei ai giardinieri della terra
di strappare dal ramo della notte
la foglia gialla della luna.
A mezzanotte, lacerando le tende
del mio splendido palazzo,
con gli artigli del mio furore
capovolgerei l’universo.
Dopo millenni di silenzio
getterei i monti
nella bocca spalancata dei mari.
Scioglierei i ceppi
di migliaia di stelle febbrili.
Spargerei il sangue del fuoco
nelle vene silenziose dei boschi.
Lacerate le tende del fumo,
farei danzare la figlia del fuoco,
ubriaca,
tra le braccia degli alberi,
nel muggito del vento.
..............
.............
Se fossi dio,
chiamerei una notte gli angeli,
per far bollire l’acqua del paradiso
sulla brace dell’inferno.
Con una torcia accesa nella mano
farei scacciare il gregge dei fedeli
dai verdi umidi pascoli del cielo.
Stanca della purezza di Dio,
a mezzanotte,
sulla china di un nuovo piacere,
cercherei rifugio nel letto di Satana.
Al posto dell’aureola d’oro
vorrei l’ebbrezza oscura e amara
di un peccato, in un abbraccio.
venerdì 9 aprile 2010
lunedì 5 aprile 2010
Creuza de ma insomma quasi
Pura come una nocciolina, mi sento. Pura come una nocciolina.
Ero dentro il guscio, come le mandorle, ma le mandorle sono un po' sgualdrine...
Io invece dentro il guscio assomigliavo più ad una nocciolina, ero due, due parti nascoste da una veletta marrone. Vivo in mezzo a un campo dentro una capanna, ho fatto morire di dispiacere i miei genitori.
Perché non volevo studiare, regalavo i soldi che mi davano in mano, non ero fatta per pensare ad un futuro.
Perché non volevo un ragazzo, e nemmeno una ragazza, non volevo averne uno per loro. Perché non andavo a fare cose perché gli altri me lo dicevano.
Un giorno chiesi a mia madre: "Mamma perché ti ripari dalla pioggia?"
"La pioggia serve alla terra, non alla testa" rispose.
"Ma noi non siamo come la terra?"
Non andai da nessuna parte perché un amico vero non ce l'avevo, la famiglia mi aveva rinnegata, i manicomi li avevano chiusi insomma...L'unico posto adatto a contenermi era questa capanna.
Da lontano si vede il mare ma non come mare mare; come una linea, un po' sinuosa, su cui delle macchie di colore lasciano i loro pizzichi ogni tanto, e quando l'irritazione avanza in tutto l'organismo si fa largo un tramonto strepitoso.
Mi hanno umiliato perché non fumavo, perché non andavo a votare, perché non mi radevo, mi ricorda un po' la favola dell'orso bruno che si guarda allo specchio e dice: "forse ho i peli delle ascelle troppo lunghi" e si mette a raderseli.
Ora, cosa cambia in questo campo, come in me stessa, chi abbiamo al governo? Dei ladri o dei parassiti dei ladri?
Ora, potrei benissimo tosarmi periodicamente come si tosa il grano, ma non laverei via la minima parte di me stessa. Io con le miei insufficienze rimarrei sempre lì.
Mi sono sempre piaciute le invenzioni e i balli in maschera, perciò emergo qui da una finestrella a parlare con te, straniero, proprio perché sono imperfetta.
Emarginazione non è uguale libertà. Ti porta però molta povertà, in compenso.
La povertà è in omaggio ed io non invidio tutti i miei amici poveri come non invidio i miei amici ricchi.
Ora so che posso essere come loro e zappo la terra, porto i prodotti dal monte al mare e qualche volta dal mare al monte.
Ogni tanto c'è qualcuno che mi parla e che mi ascolta. E' così che vado avanti. Ma lei, signor straniero, non si lasci ingannare dai miei bei seni, dalle mie braccia forti e dal mio sguardo un po' così. Sarà colpa del mare. Da bravo, ritorni nella sua casa.
Ero dentro il guscio, come le mandorle, ma le mandorle sono un po' sgualdrine...
Io invece dentro il guscio assomigliavo più ad una nocciolina, ero due, due parti nascoste da una veletta marrone. Vivo in mezzo a un campo dentro una capanna, ho fatto morire di dispiacere i miei genitori.
Perché non volevo studiare, regalavo i soldi che mi davano in mano, non ero fatta per pensare ad un futuro.
Perché non volevo un ragazzo, e nemmeno una ragazza, non volevo averne uno per loro. Perché non andavo a fare cose perché gli altri me lo dicevano.
Un giorno chiesi a mia madre: "Mamma perché ti ripari dalla pioggia?"
"La pioggia serve alla terra, non alla testa" rispose.
"Ma noi non siamo come la terra?"
Non andai da nessuna parte perché un amico vero non ce l'avevo, la famiglia mi aveva rinnegata, i manicomi li avevano chiusi insomma...L'unico posto adatto a contenermi era questa capanna.
Da lontano si vede il mare ma non come mare mare; come una linea, un po' sinuosa, su cui delle macchie di colore lasciano i loro pizzichi ogni tanto, e quando l'irritazione avanza in tutto l'organismo si fa largo un tramonto strepitoso.
Mi hanno umiliato perché non fumavo, perché non andavo a votare, perché non mi radevo, mi ricorda un po' la favola dell'orso bruno che si guarda allo specchio e dice: "forse ho i peli delle ascelle troppo lunghi" e si mette a raderseli.
Ora, cosa cambia in questo campo, come in me stessa, chi abbiamo al governo? Dei ladri o dei parassiti dei ladri?
Ora, potrei benissimo tosarmi periodicamente come si tosa il grano, ma non laverei via la minima parte di me stessa. Io con le miei insufficienze rimarrei sempre lì.
Mi sono sempre piaciute le invenzioni e i balli in maschera, perciò emergo qui da una finestrella a parlare con te, straniero, proprio perché sono imperfetta.
Emarginazione non è uguale libertà. Ti porta però molta povertà, in compenso.
La povertà è in omaggio ed io non invidio tutti i miei amici poveri come non invidio i miei amici ricchi.
Ora so che posso essere come loro e zappo la terra, porto i prodotti dal monte al mare e qualche volta dal mare al monte.
Ogni tanto c'è qualcuno che mi parla e che mi ascolta. E' così che vado avanti. Ma lei, signor straniero, non si lasci ingannare dai miei bei seni, dalle mie braccia forti e dal mio sguardo un po' così. Sarà colpa del mare. Da bravo, ritorni nella sua casa.
Coralie
Coralie sfiorava con un piede la base della statua, ed era fredda.
Non sapeva dire perché si trovasse nel pianerottolo di quel condominio, perché guardasse quel panorama, così estraneo, eppure così normale: uno spiazzo con dei parcheggi, un bambino che giocava dando calci a una palla contro un muro, di fronte degli altri palazzi, con delle finestre illuminate, dei terrazzi, con delle ombre che forse l’avevano vista. Forse tutt’ora la guardavano, seduta per terra nel pianerottolo col vestito coloratissimo messo per l’umore quieto e zuccherino che si sentiva la mattina e che in quel momento sembrava perduto per sempre.
G. non voleva parlare con suo padre. Il padre era arrivato all’improvviso mentre lui dormiva con la testa sul grembo di Coralie.
“Non mi toccare” aveva detto G. a suo padre. Si era messo le scarpe, era uscito.
Le aveva chiesto se voleva venire, sì, ma senza aspettare una risposta e dato che Coralie cercava di farlo restare se ne era andato. Ed ora lei era lì. Lui era fuori, da qualche parte nella immensa città, trafficata e sconosciuta, della quale Coralie conosceva solo la via di quella casa piena di altre finestre illuminate, ma sempre lontane.
In quella casa estranea, con persone che non è che non le volessero bene ma che nascondevano in loro segreti di cui lei non sapeva niente.
E forse neanche loro sapevano. Ma lei che ci poteva fare? Cosa poteva fare, cosa poteva fare, da decine di minuti si faceva questa domanda come se la fanno i dementi, prima con la faccia nascosta tra le mani con le lacrime sulle dita, poi ad alta voce, battendo le palme come le orientali nei giorni di lutto.
Era uscita dalla casa. Era andata a cercarlo, ma ora era tornata, ora era sul pianerottolo. Non sapeva da quanto tempo, sempre nascosta, accovacciata, alzandosi in piedi di tanto in tanto quando sentiva il rumore degli ascensori che si aprivano, per appiattirsi ancora di più verso l’angolo ed evitare di attrarre l’attenzione di qualche inquilino curioso. O di incrociare il padre.
Voleva correre via non farsi trovare più, tanto i genitori la sapevano tranquilla, a casa di G. Così lontano da dove lei viveva.
Ma loro si amavano e la madre di Coralie non poteva immaginare il sentimento di disagio che provava lei in quel momento, forse solo lei stessa lo capiva, ricordandosi del suo terrore di venire abbandonata, dei suoi singhiozzi tutte le volte che, da bambina, la madre usciva di casa e tornava qualche minuto dopo l’ora prevista. Suo padre…beh, Coralie non li aveva mai capiti i padri. Anche per questo ora era lì, su quel pianerottolo, isolata da tutti, e non dentro quella casa, a spiegare al padre di G. perché lui non voleva parlargli e tutto il resto. E poi cosa c’era da spiegare, con tutti i danni che aveva fatto in quella famiglia quell’uomo si aspettava ancora di essere ben accetto? “Avanti, alla prossima misericordia!” strillettava l’angioletto segretario lassù in cielo. Coralie non riusciva a pensare, era freddo nonostante il clima dolce di quell’isola, era freddo e il bambino faceva sbattere la palla sulla saracinesca dei negozi chiusi da un pezzo. Quell’angolo era sporco, il muro e il pavimento.
C’era la porta del generatore elettrico, chiusa, poi c’era un estintore coperto da un vetro polveroso con la scritta: rompere in caso di emergenza.
Faceva contorcere le budella soprattutto il rumore degli ascensori, di gente che ritornava alla propria casa o usciva tutta bella agghindata per la serata. Gente che aveva un posto dove andare, per la quale quella città era il posto più naturale dove muoversi e vivere. O poteva essere G. che rientrava.
Coralie non si governava più. Decideva di sé così poco che, dopo aver pensato a buttarsi di sotto, e a che faccia avrebbe fatto il proprietario di quel motorino parcheggiato laggiù vedendo il suo corpo sfracellato a faccia in giù, suonò alla porta per entrare.
Gli occhi rossi e forse altri particolari svelavano alla sorellina di G. che aveva pianto, lei le disse che lo aveva cercato, ma senza trovarlo.
Probabilmente la sorellina la capiva, anche se forse avrebbe voluto non vedere come l’ombra di quella famiglia intaccasse anche estranei.
Tutto era andato così in fretta, vivere con G. non era mai facile. Lo amava, certo, ma non sapeva mai come rompere i silenzi che all’improvviso si formavano, o impedirsi di scocciarlo con infinite domande per capire che cosa avesse. Vivere con G. non era mai facile, ma era bellissimo avere un rapporto così puro, anche solo conoscere una persona così sensibile, buona, dolce e appassionata, avere la fortuna di averlo fatto innamorare.
Ma il passato non se ne va, e se uno è lucido, come lo era G. su se stesso, sa che il potere ipnotico del tuo trauma, un trauma anche piccolo apparentemente, “un trauma qualsiasi”, disse lo psicologo, non ti abbandona mai, finché non lo affronti.
Entrata in casa, una casa con tanti oggetti e non proprio in ordine, una casa da gatti, una casa bella, disse alla sorella che l’aveva cercato, ma che non sapeva dove fosse, andò in camera, dove il padre di G. la mandò a chiamare.
Lei avrebbe voluto stare in pace, seduta sul letto, l’aria calda, anche se la casa era pur sempre senza riscaldamento, su quell’isola dolce.
Andò dal genitore, scossa e un po’ rigida, con le ossa che gli traballavano per il cambiamento improvviso di scena. Prima fuori, tutte quelle luci, ora dentro, il caldo, il divano morbido.
Si sedeva sul divano sentendosi come ad un’interrogazione. Tanto valeva, ne aveva affrontate tante.
Le venne coraggio, “In fondo quest’uomo non è altro che uno sconosciuto per me, uno schifoso, ma sconosciuto.” Pensava.
“Cosa ha fatto G.? Come mai non mi vuole parlare?” La voce da chi si sente adulto e vuole, attraverso la sua esperienza, dominarti.
Gli riusciva bene questo ruolo, ma non aveva studiato molto, solo si serviva di una maschera unta e logora e usata.
Coralie prima fu titubante se avesse dovuto parlare o stare in silenzio, invece dato che questo le faceva venire in mente tutti i momenti in cui non era riuscita a comunicare con G., si decise, arrabbiata, alzò lo sguardo e parlò.
Parlando avrebbe rotto qualcosa nei silenzi opprimenti che aveva avuto G. con suo padre in tutta la sua adolescenza, questo lo sperava. Parlava per sé, parlava per G; non per suo padre che non gliene importava niente di farlo sentire in colpa o di sperare che capisse dai propri errori o che scendesse per un attimo dalla sua gabbia di orgoglio. Come una gabbia da canarino, con il trespolo molto robusto, che ti fa credere di stare benissimo così.
Lo vedeva, l’uomo con le spalle al muro, dietro non sapeva quanti cumuli di scudi e ferraglia, l’uomo che teneva ancora attaccati al cuore ricordi lontanissimi di due bambini, e una bambina, i suoi figli piccoli, e di giochi e di affetto.
La speranza, che traditrice! Quando sei costretto a sperare anche se sai di aver sbagliato tutto, e speri con gli occhi dell’orgoglio, speri non muovendoti di un millimetro dal tuo trespolo.
A Coralie ricordava un po’ quei ragazzi che vengono spinti a cambiare, incoraggiati a cercare un lavoro, mentre ormai si sono mangiati tutto il cervello con droghe vigliacche.
All’inizio fu cauta, di una cautela che non aveva sperato di avere, dopo la disperazione di prima.
Mentre parlava, una dolce ninna nanna in francese le risuonava dentro, quella che G. le aveva cantato una delle prime volte che avevano dormito insieme.
“Io non lo so, perché sono arrivata ora e non conosco tutto quello che è successo prima, penso che sia per alcuni suoi atteggiamenti con lui, per cose che si porta dietro da tanto.” Silenzio. “E poi questo fatto così improvviso, che nessuno si immaginava..” Alludeva all’amante trentenne, che lo aveva portato a buttare definitivamente via tutto.
“I miei rapporti con Licia…Sì…pensavo che questo non avrebbe influito sul rapporto con i figli, anche se a quanto pare è così. Mi dispiace di coinvolgerti.”
L’ascoltava, le aveva parlato.
“Io non posso non essere coinvolta, lo ero sin dall’inizio” “Sin da quando lei ci ha cacciati di casa, il primo giorno che sono venuta a conoscervi, e ci ha cacciati perché non ero stata presentata ufficialmente e perché dormivamo nello stesso letto.” Coralie non si sarebbe ricordata poi l’ordine in cui aveva detto tutto, ma che era stato detto, solo questo importava.
Nel momento in cui citò questo avvenimento il padre di G. si alzò, uscì dalla stanza dicendo “Questa è una sua responsabilità”, prese il casco dal tavolo della cucina, salutò la figlia di tredici anni, salutò Coralie, e uscì.
Quell’impressione di essere ascoltata svanì di colpo. Lui se ne era andato e Coralie gli aveva ricordato che andandosene così e poi tornando non avrebbe risolto niente. Lui se ne era andato e adesso la ragazza poteva stare in pace ad aspettare G.
G. rientrò un minuto più tardi, probabilmente aveva spiato suo padre uscire.
Da quando era tornato, tra le braccia di Coralie, a lei veniva da piangere e da sciogliersi.
Allora G. disse: “Cosa ti ha fatto? Cosa ti ha fatto?” e Coralie rispose “Niente…”
E le lacrime giocavano fra i riccioli, lontane dal paese delle pietre e della polvere, in cui aveva giaciuto il suo cuore poco prima.
Lontana dai gracidii e dai raschianti brividi, lontana dalle mascherate pubbliche e dai supplizi privati, solo fra le braccia di G.
Non sapeva dire perché si trovasse nel pianerottolo di quel condominio, perché guardasse quel panorama, così estraneo, eppure così normale: uno spiazzo con dei parcheggi, un bambino che giocava dando calci a una palla contro un muro, di fronte degli altri palazzi, con delle finestre illuminate, dei terrazzi, con delle ombre che forse l’avevano vista. Forse tutt’ora la guardavano, seduta per terra nel pianerottolo col vestito coloratissimo messo per l’umore quieto e zuccherino che si sentiva la mattina e che in quel momento sembrava perduto per sempre.
G. non voleva parlare con suo padre. Il padre era arrivato all’improvviso mentre lui dormiva con la testa sul grembo di Coralie.
“Non mi toccare” aveva detto G. a suo padre. Si era messo le scarpe, era uscito.
Le aveva chiesto se voleva venire, sì, ma senza aspettare una risposta e dato che Coralie cercava di farlo restare se ne era andato. Ed ora lei era lì. Lui era fuori, da qualche parte nella immensa città, trafficata e sconosciuta, della quale Coralie conosceva solo la via di quella casa piena di altre finestre illuminate, ma sempre lontane.
In quella casa estranea, con persone che non è che non le volessero bene ma che nascondevano in loro segreti di cui lei non sapeva niente.
E forse neanche loro sapevano. Ma lei che ci poteva fare? Cosa poteva fare, cosa poteva fare, da decine di minuti si faceva questa domanda come se la fanno i dementi, prima con la faccia nascosta tra le mani con le lacrime sulle dita, poi ad alta voce, battendo le palme come le orientali nei giorni di lutto.
Era uscita dalla casa. Era andata a cercarlo, ma ora era tornata, ora era sul pianerottolo. Non sapeva da quanto tempo, sempre nascosta, accovacciata, alzandosi in piedi di tanto in tanto quando sentiva il rumore degli ascensori che si aprivano, per appiattirsi ancora di più verso l’angolo ed evitare di attrarre l’attenzione di qualche inquilino curioso. O di incrociare il padre.
Voleva correre via non farsi trovare più, tanto i genitori la sapevano tranquilla, a casa di G. Così lontano da dove lei viveva.
Ma loro si amavano e la madre di Coralie non poteva immaginare il sentimento di disagio che provava lei in quel momento, forse solo lei stessa lo capiva, ricordandosi del suo terrore di venire abbandonata, dei suoi singhiozzi tutte le volte che, da bambina, la madre usciva di casa e tornava qualche minuto dopo l’ora prevista. Suo padre…beh, Coralie non li aveva mai capiti i padri. Anche per questo ora era lì, su quel pianerottolo, isolata da tutti, e non dentro quella casa, a spiegare al padre di G. perché lui non voleva parlargli e tutto il resto. E poi cosa c’era da spiegare, con tutti i danni che aveva fatto in quella famiglia quell’uomo si aspettava ancora di essere ben accetto? “Avanti, alla prossima misericordia!” strillettava l’angioletto segretario lassù in cielo. Coralie non riusciva a pensare, era freddo nonostante il clima dolce di quell’isola, era freddo e il bambino faceva sbattere la palla sulla saracinesca dei negozi chiusi da un pezzo. Quell’angolo era sporco, il muro e il pavimento.
C’era la porta del generatore elettrico, chiusa, poi c’era un estintore coperto da un vetro polveroso con la scritta: rompere in caso di emergenza.
Faceva contorcere le budella soprattutto il rumore degli ascensori, di gente che ritornava alla propria casa o usciva tutta bella agghindata per la serata. Gente che aveva un posto dove andare, per la quale quella città era il posto più naturale dove muoversi e vivere. O poteva essere G. che rientrava.
Coralie non si governava più. Decideva di sé così poco che, dopo aver pensato a buttarsi di sotto, e a che faccia avrebbe fatto il proprietario di quel motorino parcheggiato laggiù vedendo il suo corpo sfracellato a faccia in giù, suonò alla porta per entrare.
Gli occhi rossi e forse altri particolari svelavano alla sorellina di G. che aveva pianto, lei le disse che lo aveva cercato, ma senza trovarlo.
Probabilmente la sorellina la capiva, anche se forse avrebbe voluto non vedere come l’ombra di quella famiglia intaccasse anche estranei.
Tutto era andato così in fretta, vivere con G. non era mai facile. Lo amava, certo, ma non sapeva mai come rompere i silenzi che all’improvviso si formavano, o impedirsi di scocciarlo con infinite domande per capire che cosa avesse. Vivere con G. non era mai facile, ma era bellissimo avere un rapporto così puro, anche solo conoscere una persona così sensibile, buona, dolce e appassionata, avere la fortuna di averlo fatto innamorare.
Ma il passato non se ne va, e se uno è lucido, come lo era G. su se stesso, sa che il potere ipnotico del tuo trauma, un trauma anche piccolo apparentemente, “un trauma qualsiasi”, disse lo psicologo, non ti abbandona mai, finché non lo affronti.
Entrata in casa, una casa con tanti oggetti e non proprio in ordine, una casa da gatti, una casa bella, disse alla sorella che l’aveva cercato, ma che non sapeva dove fosse, andò in camera, dove il padre di G. la mandò a chiamare.
Lei avrebbe voluto stare in pace, seduta sul letto, l’aria calda, anche se la casa era pur sempre senza riscaldamento, su quell’isola dolce.
Andò dal genitore, scossa e un po’ rigida, con le ossa che gli traballavano per il cambiamento improvviso di scena. Prima fuori, tutte quelle luci, ora dentro, il caldo, il divano morbido.
Si sedeva sul divano sentendosi come ad un’interrogazione. Tanto valeva, ne aveva affrontate tante.
Le venne coraggio, “In fondo quest’uomo non è altro che uno sconosciuto per me, uno schifoso, ma sconosciuto.” Pensava.
“Cosa ha fatto G.? Come mai non mi vuole parlare?” La voce da chi si sente adulto e vuole, attraverso la sua esperienza, dominarti.
Gli riusciva bene questo ruolo, ma non aveva studiato molto, solo si serviva di una maschera unta e logora e usata.
Coralie prima fu titubante se avesse dovuto parlare o stare in silenzio, invece dato che questo le faceva venire in mente tutti i momenti in cui non era riuscita a comunicare con G., si decise, arrabbiata, alzò lo sguardo e parlò.
Parlando avrebbe rotto qualcosa nei silenzi opprimenti che aveva avuto G. con suo padre in tutta la sua adolescenza, questo lo sperava. Parlava per sé, parlava per G; non per suo padre che non gliene importava niente di farlo sentire in colpa o di sperare che capisse dai propri errori o che scendesse per un attimo dalla sua gabbia di orgoglio. Come una gabbia da canarino, con il trespolo molto robusto, che ti fa credere di stare benissimo così.
Lo vedeva, l’uomo con le spalle al muro, dietro non sapeva quanti cumuli di scudi e ferraglia, l’uomo che teneva ancora attaccati al cuore ricordi lontanissimi di due bambini, e una bambina, i suoi figli piccoli, e di giochi e di affetto.
La speranza, che traditrice! Quando sei costretto a sperare anche se sai di aver sbagliato tutto, e speri con gli occhi dell’orgoglio, speri non muovendoti di un millimetro dal tuo trespolo.
A Coralie ricordava un po’ quei ragazzi che vengono spinti a cambiare, incoraggiati a cercare un lavoro, mentre ormai si sono mangiati tutto il cervello con droghe vigliacche.
All’inizio fu cauta, di una cautela che non aveva sperato di avere, dopo la disperazione di prima.
Mentre parlava, una dolce ninna nanna in francese le risuonava dentro, quella che G. le aveva cantato una delle prime volte che avevano dormito insieme.
“Io non lo so, perché sono arrivata ora e non conosco tutto quello che è successo prima, penso che sia per alcuni suoi atteggiamenti con lui, per cose che si porta dietro da tanto.” Silenzio. “E poi questo fatto così improvviso, che nessuno si immaginava..” Alludeva all’amante trentenne, che lo aveva portato a buttare definitivamente via tutto.
“I miei rapporti con Licia…Sì…pensavo che questo non avrebbe influito sul rapporto con i figli, anche se a quanto pare è così. Mi dispiace di coinvolgerti.”
L’ascoltava, le aveva parlato.
“Io non posso non essere coinvolta, lo ero sin dall’inizio” “Sin da quando lei ci ha cacciati di casa, il primo giorno che sono venuta a conoscervi, e ci ha cacciati perché non ero stata presentata ufficialmente e perché dormivamo nello stesso letto.” Coralie non si sarebbe ricordata poi l’ordine in cui aveva detto tutto, ma che era stato detto, solo questo importava.
Nel momento in cui citò questo avvenimento il padre di G. si alzò, uscì dalla stanza dicendo “Questa è una sua responsabilità”, prese il casco dal tavolo della cucina, salutò la figlia di tredici anni, salutò Coralie, e uscì.
Quell’impressione di essere ascoltata svanì di colpo. Lui se ne era andato e Coralie gli aveva ricordato che andandosene così e poi tornando non avrebbe risolto niente. Lui se ne era andato e adesso la ragazza poteva stare in pace ad aspettare G.
G. rientrò un minuto più tardi, probabilmente aveva spiato suo padre uscire.
Da quando era tornato, tra le braccia di Coralie, a lei veniva da piangere e da sciogliersi.
Allora G. disse: “Cosa ti ha fatto? Cosa ti ha fatto?” e Coralie rispose “Niente…”
E le lacrime giocavano fra i riccioli, lontane dal paese delle pietre e della polvere, in cui aveva giaciuto il suo cuore poco prima.
Lontana dai gracidii e dai raschianti brividi, lontana dalle mascherate pubbliche e dai supplizi privati, solo fra le braccia di G.
domenica 4 aprile 2010
giovedì 1 aprile 2010
Il castello d'oro
Cosa fanno il nostro corpo e le nostre mani, su di noi? E' come una mappa di un mondo che non possiamo mai raggiungere. Eppure c'è chi crea opere immortali, chi sceglie di sacrificarsi, altri che amano ad arte e donando le migliori delizie.
Le nostre doti non devono rimanere chiuse in uno scrigno. Se finisce, cade o si crepa ciò che era stato creato noi perdiamo...Non so dire cosa perdiamo. E poi c'è chi dice che noi stessi siamo stati creati proprio come delle opere d'arte. Ma dio che bisogno aveva di farlo, se è tanto perfetto? E cosa prova, al momento della privazione, della morte di uno di noi? Se dio si eterna in noi, nella fede, o come la vogliamo chiamare, cosa succede in lui quando noi moriamo? Io quando perdo uno scritto, quando lo dimentico o lo "uccido", quando rimane monco o perdo nell'aria un'idea, è come se perdessi un castello d'oro, che dà su montagne nuove, un panorama sconosciuto, che a volte diventa arido e orribile. Allora mi sento come se anch'io mi seccassi, guardando dalle finestre di quel castello d'oro.
A volte il lavoro si ferma ancora prima che io possa contemplare bene dalla finestra, a volte l'aria è più forte dell'oro del castello e tutto svapora via. Non riesco a lasciare in pace i miei castelli, tutti crollano, per un motivo o per l'altro, ancora prima di poter dare il primo ballo, e invitare ospiti, e abbellire con colori e nastri quello che è solo un castello della mia anima. Quanto vorrei essere meno razionale, esserlo il minimo, come una mollichina caduta dal coltello del pane. Come vorrei non sentire il bisogno di esprimere quello che sento, oppure, sentendolo, farlo gioiosamente e imperiosamente, come l'imperatrice di quel castello. Ma i lacché sono disubbidienti e presto cade tutto nell'anarchia, nel dubbio, nel soqquadro, nel sogno. Nell'incubo, nella ripresa della parola dopo la magia dello spettacolo, o peggio, all'intervallo. Chi ha inventato gli intervalli nei teatri? Nei pochi momenti in cui non mi scoccio perché qualcuno chiede sempre: "ti sta piacendo?" entro però in un sogno pieno di ombre, rivedo i personaggi della messinscena, e tutta la finzione diventare la mia finzione, più reale ancora dentro la mia lente di ingrandimento interiore, mi fa tanto male.
E si riempiono di mostri le sale, le scalinate, le terrazze, si riempiono di voci che ho creato io stessa e che non riconosco più. Ecco che inizio a dipingere il castello d'oro dei colori dell'ambiente circostante, per ingannare la vista, ma in quei momenti l'oro diventa più pesante ancora, più luccicante, e mi prende in giro, diventa rocca silenziosa, una rupe, da cui pendo inerte.
Quel castello non sono io. In realtà non so più dove sono io. E se mi perdo, mi perdo comunque, sempre in solitudine, perché l'uomo pensa di potersi eternare, di poter vivere dopo la morte? Perché vuole lasciare qualcosa? E non si impegna invece a poter vivere, a capire che cos'è vivere veramente. Che importa se moriamo raffazzonati, raccolti in un corpo a malapena? Noi amiamo per lasciare per sempre, l'unica cosa in cui siamo bravissimi è lasciare per sempre. Ma cosa lasciamo, questo non ci interessa più.
Le nostre doti non devono rimanere chiuse in uno scrigno. Se finisce, cade o si crepa ciò che era stato creato noi perdiamo...Non so dire cosa perdiamo. E poi c'è chi dice che noi stessi siamo stati creati proprio come delle opere d'arte. Ma dio che bisogno aveva di farlo, se è tanto perfetto? E cosa prova, al momento della privazione, della morte di uno di noi? Se dio si eterna in noi, nella fede, o come la vogliamo chiamare, cosa succede in lui quando noi moriamo? Io quando perdo uno scritto, quando lo dimentico o lo "uccido", quando rimane monco o perdo nell'aria un'idea, è come se perdessi un castello d'oro, che dà su montagne nuove, un panorama sconosciuto, che a volte diventa arido e orribile. Allora mi sento come se anch'io mi seccassi, guardando dalle finestre di quel castello d'oro.
A volte il lavoro si ferma ancora prima che io possa contemplare bene dalla finestra, a volte l'aria è più forte dell'oro del castello e tutto svapora via. Non riesco a lasciare in pace i miei castelli, tutti crollano, per un motivo o per l'altro, ancora prima di poter dare il primo ballo, e invitare ospiti, e abbellire con colori e nastri quello che è solo un castello della mia anima. Quanto vorrei essere meno razionale, esserlo il minimo, come una mollichina caduta dal coltello del pane. Come vorrei non sentire il bisogno di esprimere quello che sento, oppure, sentendolo, farlo gioiosamente e imperiosamente, come l'imperatrice di quel castello. Ma i lacché sono disubbidienti e presto cade tutto nell'anarchia, nel dubbio, nel soqquadro, nel sogno. Nell'incubo, nella ripresa della parola dopo la magia dello spettacolo, o peggio, all'intervallo. Chi ha inventato gli intervalli nei teatri? Nei pochi momenti in cui non mi scoccio perché qualcuno chiede sempre: "ti sta piacendo?" entro però in un sogno pieno di ombre, rivedo i personaggi della messinscena, e tutta la finzione diventare la mia finzione, più reale ancora dentro la mia lente di ingrandimento interiore, mi fa tanto male.
E si riempiono di mostri le sale, le scalinate, le terrazze, si riempiono di voci che ho creato io stessa e che non riconosco più. Ecco che inizio a dipingere il castello d'oro dei colori dell'ambiente circostante, per ingannare la vista, ma in quei momenti l'oro diventa più pesante ancora, più luccicante, e mi prende in giro, diventa rocca silenziosa, una rupe, da cui pendo inerte.
Quel castello non sono io. In realtà non so più dove sono io. E se mi perdo, mi perdo comunque, sempre in solitudine, perché l'uomo pensa di potersi eternare, di poter vivere dopo la morte? Perché vuole lasciare qualcosa? E non si impegna invece a poter vivere, a capire che cos'è vivere veramente. Che importa se moriamo raffazzonati, raccolti in un corpo a malapena? Noi amiamo per lasciare per sempre, l'unica cosa in cui siamo bravissimi è lasciare per sempre. Ma cosa lasciamo, questo non ci interessa più.
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