venerdì 21 ottobre 2011

parole

Non c'è nave che passi da una lingua all'altra senza affondare, i limiti sono così frastagliati che un traduttore dev'essere esperto nelle piccole scorciatoie alternative.
Il pericolo è di riconsegnare un'opera brutta, relativamente alle altre opere dell'autore dissonante e dissonante anche all'orecchio del più debole dei lettori.
Il nome del traduttore viene cercato più che altro per criticarlo, raramente per lodarlo, quindi allerta! Il lavoro del traduttore si struttura su due livelli principali:
1.Rendere il testo comprensibile e bello per coloro che non possono accedere all'originale, incuriosirli e spingerli ad approfondire.
2.Strizzare l'occhio a coloro che l'originale lo conoscono, e sbizzarrirsi ma sempre umilmente e coscientemente, come solo i poeti sanno fare.

Solo i poeti infatti trattano la lingua da innamorati. I traduttori di mestiere che però non sono poeti possono porsi da sposi, ma non saranno mai cavalier serventi, ed è davvero una fortuna che i cavalieri serventi non possano sposare se non raramente la dama che amano.

Il lavoro giusto sarebbe tuttavia garantito, suppongo, da un lavoro comune tra il traduttore di mestiere e il poeta, ma siccome il poeta non tende spesso a collaborare docilmente, il mondo si riempirà ancora per molto di cattive traduzioni dalle quali esala un costante senso di secchezza. Ammesso che non si parli di poeti che abbiano studiato (e che sappiano gestire alla pari con la vena poetica) anche la traduzione, ma è sempre difficile parlare di questo tipo di schizofrenia, perché sul genio c'è poco da dire.

La mia non è propriamente una critica, dev'esserci un senso, un profumo, in poche traduzioni e non in tutte, così potremo sempre orientarci e assorbire il sublime che sta dentro al senso della misura.

Anche la rabbia o la nausea per una cattiva traduzione deve spingere chi le percepisce a correggere il tiro, a donare un'alternativa, come una specie di wikipedia del pensiero, un format aperto, un teatro civico, un...
Mi vien da dire uno psicodramma, a questo punto, perché la filologia e la parola in particolare sono vere forme di nevrosi.

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