giovedì 28 aprile 2011

Milano

Aspettai che la macchina finisse di incanalarsi dietro alle altre che si erano già fermate al semaforo, poi io, libera pedone, saltai il muretto e attraversai. Dopo i cinque piani di scale del numero 47 aprii l'ennesima porta e lo vidi, il corridoio profumato con fiori di carta e con un messaggio per la vecchia proprietaria.
Era lì che avrei abitato.
Avanzando potei scorgere tra le stanze buie la porta della mia camera da letto, come indicato dalla pianta dell'appartamento. Quello a fianco era il bagno. Ci doveva essere ancora una cucina e la stanza del coinquilino ma, dubitando su quale delle due porte fosse cosa mi tolsi le scarpe e procedetti fino alla mia stanza, stanca dal viaggio.
Volli mettere il mio spazzolino nel bicchiere del bagno, anche per far segno al mio coinquilino che ero arrivata.
Poi calpestai il tappeto morbidissimo e caddi addormentata su di esso, perché non avevo ancora trasferito il letto.
La mattina dopo non ebbi l'energia per svegliarmi al suono del campanello, ma sentii una voce grugnante e un corpo che camminava fino alla porta d'ingresso.
La luce che veniva dal pianerottolo doveva averlo svegliato definitivamente, e all'improvviso si fece gentile. "Ah, zietta...." "Entra, ti apettavo qui la prossima primavera. Perché così presto." Il suo accento era nuovo.
Qualcuno entrò in casa e si aprirono le finestre cosicché un po' di luce mi svegliò, inquieta.
Mi sentivo un po' intrusa e a disagio, come se mi fossi intrufolata in casa d'altri.
Decisi di fingere di dormire ancora un po', ma mi tirai sopra una coperta, per pudore.
Qualcuno parlava piano, in un'altra stanza, sarebbe stato impercettibile se io non avessi tutti i sensi all'erta, ancora impregnati di notte, o se non avessi dormito nemmeno le poche ore in treno.
Passarono i minuti e non si sentivano rumori, ma non potevo più dormire e iniziai a sbirciare nella penombra, per la prima volta, che aspetto avesse la mia stanza.
Ero decisa a spalancare la finestra quando qualcuno si avvicinò. Sentii ancora la voce del coinquilino, poi silenzio e poi, d'una voce turbinosa come acqua di torrente:

" Io ti leggo, stanza vuota, e non ti temo.
Tu mi dici le menzogne, tu mi dici le bisogne
Della vita le sorgenti e il fondo estremo."

Mi sembrava di stare sognando.
"Zietta, vieni, torna a prendere il tuo tè...Stavolta ascoltami." diceva il coinquilino, ma la zia:
"Aspetta, sento che non è vuota."
"Che cosa dici?"
"Non è vuota, ti dico!"
Allora il coinquilino accese l'interruttore e illuminò la mia faccia piena di stupore, coi capelli ritti dallo spavento, e il mio corpo in piedi inerme.
I due stettero per un po' fermi e muti, poi il coinquilino, un bel bruno dai capelli spettinati e un pigiama a pantaloncini verde disse alla zia, una donna anziana quanto il mondo vestita in modo semplice e con l'espressione sicura di sè.
"Ah, mi scusi, lei deve essere la nuova coinquilina." Poi, senza aspettare la mia risposta chiuse la porta, come se niente fosse.
Mentre la zia faceva il giro di tutte le altre stanze recitando le sue formure il ragazzo cercava di distoglierla e di riportarla in cucina.
Io non ero più spaventata, ma un po' divertita dalla scena a cui avevo assistito, nella quale d'altra parte non ero passata per la più squinternata tra tutti loro, o si?
Alzai le serrande e giocherellai con le maniglie dei cassetti, pensando a chi potesse essere quella donna, magari un'antica megera del sud-italia, che continuava a concedere i suoi servizi alle ricche famiglie superstiziose, o magari era veramente sua zia, uscita da un ospedale psichiatrico con qualche rotella in meno.
Ciò che mi tranquillizzava era la cura e l'affetto col quale il giovane sembrava trattarla, senza nemmeno un pizzico di scherno. Voleva dire che era un tipo gentile.
Svuotai la valigia dopo essere sgattaiolata in bagno, le mattonelle di quella stanza erano blu, mentre i muri della mia nitidamente bianchi.
Una volta lavata, vestita e profumata bussai alla porta dietro la quale dovevano essere i due.
Prima di sentire alcun tipo di risposta sentii la signora bisbigliare, non tanto a bassa voce: "Te l'ho detto che sarebbe venuta lei."
"Entri pure", disse lui finalmente, insieme all'esotico "Trasite, trasite" della donna.
Apparve una cucina allegra, con qualche tazza da lavare, con dei vasetti di basilico alla finestra, e un enorme vaso che si vedeva nel terrazzo. A giudicare dalla caraffa di tè quasi vuota non erano alla prima tazzina, e un altro po' d'acqua bolliva in un pentolino.
Sorrisi spontaneamente.
"Scusate se prima vi ho spaventati, è che sono arrivata stanotte.."
"Occupare una stanza non ancora interrogata, che idea..." disse la vecchia.
Chiesi educatamente cosa intendesse e il ragazzo mi fece segno di sedermi, dove c'era già una tazza piena di tè fumante ad aspettarmi. Quando l'aveva versato? Non l'avevo visto, prima.
"Io sono Fabrizio, questa è Irene, mia zia da Palermo. Non è proprio una vera zia, ma è come se lo fosse."
"Io sono Cristina, piacere"
La signora Irene soffiò sul suo te, ridendo sotto i baffi, mentre io ero come congelata dentro gli occhi di Fabrizio e prendendo una sorsata troppo rapida mi scottai.
"La zietta viene a trovarmi a volte, mi dà tanti utili consigli, ed è convinta che le stanze le rivelino segreti, soprattutto quelle vuote. Per la verità non conosco ancora tutti i suoi poteri" disse Fabrizio.
Cristina rise, pensando che fosse una battuta, ma Fabrizio la guardò serio e lei non fece altre domande.
"Bella questa cucina! Anche la camera mi piace, è arredata con mobili di legno."
"Li ho fatti io" disse il coinquilino. "Sono falegname." La frangetta gli coprì all'improvviso gli occhi.
"Oltre a studiare alla Bocconi?" Dissi io, stupita.
Fabrizio si mise a ridere.
"Il falegname lo faccio meglio dello studente."
Sarebbe stata una conversazione normale, se non ci fosse stata la vecchia. Un concentrato di lampi e tuoni uniti ad un sorrisino da gatta paffutella.
Fabrizio se ne rese conto, e disse:
"La zia viene di solito a primavera, preferisce il clima mite, e tutto il resto dell'anno sta in sicilia."
"Anche tu sei siciliano? Ti posso dare del tu?"
Fabrizio tacque qualche secondo, come sempre, poi disse.
"Mi puoi dare del tu. Sì, sono siciliano."
Mi misi a giocherellare con un pezzetto di fil di ferro che c'era sulla tovaglia, imbarazzata.
"Io me ne vado" disse la signora Irene con una voce stridente. "Mi aspettano a San Lorenzo". Si alzò, prese la sua borsa verde e si diresse verso la porta.
Fabrizio con calma posò la tazzina col tè che sembrava non finire mai e la seguì. Io feci altrettanto, più per curiosità che per cortesia.
Zia e nipote acquisiti si abbracciarono e poi io le tesi la mano, "Piacere."
Lei mi tese una bottiglietta con un liquido marrone, dall'odore sembrava liquore al cioccolato.
"Tienilo, ti servirà." Disse, e uscì scendendo le scale, senza darmi il tempo di ringraziarla.
"Grazie" dissi io ad una mosca sul pianerottolo. Poi vidi che Fabrizio se ne era andato, tornai in cucina e lo vidi. La finestra del terrazzo era spalancata, e lui mi invitava a venire vicino.
"Questo è l'angolo più bello della casa." E mi indicò una coppia di piccioni che tubava sul tetto di una casa piena di comignoli, e poi tutti gli altri tetti e poi il campanile di una chiesa che si perdeva in lontananza, e poi la bruma, e poi Milano, la grande cipolla, che fumava come una caraffa di tè.

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