giovedì 28 aprile 2011
Milano
Aspettai che la macchina finisse di incanalarsi dietro alle altre che si erano già fermate al semaforo, poi io, libera pedone, saltai il muretto e attraversai. Dopo i cinque piani di scale del numero 47 aprii l'ennesima porta e lo vidi, il corridoio profumato con fiori di carta e con un messaggio per la vecchia proprietaria.
Era lì che avrei abitato.
Avanzando potei scorgere tra le stanze buie la porta della mia camera da letto, come indicato dalla pianta dell'appartamento. Quello a fianco era il bagno. Ci doveva essere ancora una cucina e la stanza del coinquilino ma, dubitando su quale delle due porte fosse cosa mi tolsi le scarpe e procedetti fino alla mia stanza, stanca dal viaggio.
Volli mettere il mio spazzolino nel bicchiere del bagno, anche per far segno al mio coinquilino che ero arrivata.
Poi calpestai il tappeto morbidissimo e caddi addormentata su di esso, perché non avevo ancora trasferito il letto.
La mattina dopo non ebbi l'energia per svegliarmi al suono del campanello, ma sentii una voce grugnante e un corpo che camminava fino alla porta d'ingresso.
La luce che veniva dal pianerottolo doveva averlo svegliato definitivamente, e all'improvviso si fece gentile. "Ah, zietta...." "Entra, ti apettavo qui la prossima primavera. Perché così presto." Il suo accento era nuovo.
Qualcuno entrò in casa e si aprirono le finestre cosicché un po' di luce mi svegliò, inquieta.
Mi sentivo un po' intrusa e a disagio, come se mi fossi intrufolata in casa d'altri.
Decisi di fingere di dormire ancora un po', ma mi tirai sopra una coperta, per pudore.
Qualcuno parlava piano, in un'altra stanza, sarebbe stato impercettibile se io non avessi tutti i sensi all'erta, ancora impregnati di notte, o se non avessi dormito nemmeno le poche ore in treno.
Passarono i minuti e non si sentivano rumori, ma non potevo più dormire e iniziai a sbirciare nella penombra, per la prima volta, che aspetto avesse la mia stanza.
Ero decisa a spalancare la finestra quando qualcuno si avvicinò. Sentii ancora la voce del coinquilino, poi silenzio e poi, d'una voce turbinosa come acqua di torrente:
" Io ti leggo, stanza vuota, e non ti temo.
Tu mi dici le menzogne, tu mi dici le bisogne
Della vita le sorgenti e il fondo estremo."
Mi sembrava di stare sognando.
"Zietta, vieni, torna a prendere il tuo tè...Stavolta ascoltami." diceva il coinquilino, ma la zia:
"Aspetta, sento che non è vuota."
"Che cosa dici?"
"Non è vuota, ti dico!"
Allora il coinquilino accese l'interruttore e illuminò la mia faccia piena di stupore, coi capelli ritti dallo spavento, e il mio corpo in piedi inerme.
I due stettero per un po' fermi e muti, poi il coinquilino, un bel bruno dai capelli spettinati e un pigiama a pantaloncini verde disse alla zia, una donna anziana quanto il mondo vestita in modo semplice e con l'espressione sicura di sè.
"Ah, mi scusi, lei deve essere la nuova coinquilina." Poi, senza aspettare la mia risposta chiuse la porta, come se niente fosse.
Mentre la zia faceva il giro di tutte le altre stanze recitando le sue formure il ragazzo cercava di distoglierla e di riportarla in cucina.
Io non ero più spaventata, ma un po' divertita dalla scena a cui avevo assistito, nella quale d'altra parte non ero passata per la più squinternata tra tutti loro, o si?
Alzai le serrande e giocherellai con le maniglie dei cassetti, pensando a chi potesse essere quella donna, magari un'antica megera del sud-italia, che continuava a concedere i suoi servizi alle ricche famiglie superstiziose, o magari era veramente sua zia, uscita da un ospedale psichiatrico con qualche rotella in meno.
Ciò che mi tranquillizzava era la cura e l'affetto col quale il giovane sembrava trattarla, senza nemmeno un pizzico di scherno. Voleva dire che era un tipo gentile.
Svuotai la valigia dopo essere sgattaiolata in bagno, le mattonelle di quella stanza erano blu, mentre i muri della mia nitidamente bianchi.
Una volta lavata, vestita e profumata bussai alla porta dietro la quale dovevano essere i due.
Prima di sentire alcun tipo di risposta sentii la signora bisbigliare, non tanto a bassa voce: "Te l'ho detto che sarebbe venuta lei."
"Entri pure", disse lui finalmente, insieme all'esotico "Trasite, trasite" della donna.
Apparve una cucina allegra, con qualche tazza da lavare, con dei vasetti di basilico alla finestra, e un enorme vaso che si vedeva nel terrazzo. A giudicare dalla caraffa di tè quasi vuota non erano alla prima tazzina, e un altro po' d'acqua bolliva in un pentolino.
Sorrisi spontaneamente.
"Scusate se prima vi ho spaventati, è che sono arrivata stanotte.."
"Occupare una stanza non ancora interrogata, che idea..." disse la vecchia.
Chiesi educatamente cosa intendesse e il ragazzo mi fece segno di sedermi, dove c'era già una tazza piena di tè fumante ad aspettarmi. Quando l'aveva versato? Non l'avevo visto, prima.
"Io sono Fabrizio, questa è Irene, mia zia da Palermo. Non è proprio una vera zia, ma è come se lo fosse."
"Io sono Cristina, piacere"
La signora Irene soffiò sul suo te, ridendo sotto i baffi, mentre io ero come congelata dentro gli occhi di Fabrizio e prendendo una sorsata troppo rapida mi scottai.
"La zietta viene a trovarmi a volte, mi dà tanti utili consigli, ed è convinta che le stanze le rivelino segreti, soprattutto quelle vuote. Per la verità non conosco ancora tutti i suoi poteri" disse Fabrizio.
Cristina rise, pensando che fosse una battuta, ma Fabrizio la guardò serio e lei non fece altre domande.
"Bella questa cucina! Anche la camera mi piace, è arredata con mobili di legno."
"Li ho fatti io" disse il coinquilino. "Sono falegname." La frangetta gli coprì all'improvviso gli occhi.
"Oltre a studiare alla Bocconi?" Dissi io, stupita.
Fabrizio si mise a ridere.
"Il falegname lo faccio meglio dello studente."
Sarebbe stata una conversazione normale, se non ci fosse stata la vecchia. Un concentrato di lampi e tuoni uniti ad un sorrisino da gatta paffutella.
Fabrizio se ne rese conto, e disse:
"La zia viene di solito a primavera, preferisce il clima mite, e tutto il resto dell'anno sta in sicilia."
"Anche tu sei siciliano? Ti posso dare del tu?"
Fabrizio tacque qualche secondo, come sempre, poi disse.
"Mi puoi dare del tu. Sì, sono siciliano."
Mi misi a giocherellare con un pezzetto di fil di ferro che c'era sulla tovaglia, imbarazzata.
"Io me ne vado" disse la signora Irene con una voce stridente. "Mi aspettano a San Lorenzo". Si alzò, prese la sua borsa verde e si diresse verso la porta.
Fabrizio con calma posò la tazzina col tè che sembrava non finire mai e la seguì. Io feci altrettanto, più per curiosità che per cortesia.
Zia e nipote acquisiti si abbracciarono e poi io le tesi la mano, "Piacere."
Lei mi tese una bottiglietta con un liquido marrone, dall'odore sembrava liquore al cioccolato.
"Tienilo, ti servirà." Disse, e uscì scendendo le scale, senza darmi il tempo di ringraziarla.
"Grazie" dissi io ad una mosca sul pianerottolo. Poi vidi che Fabrizio se ne era andato, tornai in cucina e lo vidi. La finestra del terrazzo era spalancata, e lui mi invitava a venire vicino.
"Questo è l'angolo più bello della casa." E mi indicò una coppia di piccioni che tubava sul tetto di una casa piena di comignoli, e poi tutti gli altri tetti e poi il campanile di una chiesa che si perdeva in lontananza, e poi la bruma, e poi Milano, la grande cipolla, che fumava come una caraffa di tè.
Era lì che avrei abitato.
Avanzando potei scorgere tra le stanze buie la porta della mia camera da letto, come indicato dalla pianta dell'appartamento. Quello a fianco era il bagno. Ci doveva essere ancora una cucina e la stanza del coinquilino ma, dubitando su quale delle due porte fosse cosa mi tolsi le scarpe e procedetti fino alla mia stanza, stanca dal viaggio.
Volli mettere il mio spazzolino nel bicchiere del bagno, anche per far segno al mio coinquilino che ero arrivata.
Poi calpestai il tappeto morbidissimo e caddi addormentata su di esso, perché non avevo ancora trasferito il letto.
La mattina dopo non ebbi l'energia per svegliarmi al suono del campanello, ma sentii una voce grugnante e un corpo che camminava fino alla porta d'ingresso.
La luce che veniva dal pianerottolo doveva averlo svegliato definitivamente, e all'improvviso si fece gentile. "Ah, zietta...." "Entra, ti apettavo qui la prossima primavera. Perché così presto." Il suo accento era nuovo.
Qualcuno entrò in casa e si aprirono le finestre cosicché un po' di luce mi svegliò, inquieta.
Mi sentivo un po' intrusa e a disagio, come se mi fossi intrufolata in casa d'altri.
Decisi di fingere di dormire ancora un po', ma mi tirai sopra una coperta, per pudore.
Qualcuno parlava piano, in un'altra stanza, sarebbe stato impercettibile se io non avessi tutti i sensi all'erta, ancora impregnati di notte, o se non avessi dormito nemmeno le poche ore in treno.
Passarono i minuti e non si sentivano rumori, ma non potevo più dormire e iniziai a sbirciare nella penombra, per la prima volta, che aspetto avesse la mia stanza.
Ero decisa a spalancare la finestra quando qualcuno si avvicinò. Sentii ancora la voce del coinquilino, poi silenzio e poi, d'una voce turbinosa come acqua di torrente:
" Io ti leggo, stanza vuota, e non ti temo.
Tu mi dici le menzogne, tu mi dici le bisogne
Della vita le sorgenti e il fondo estremo."
Mi sembrava di stare sognando.
"Zietta, vieni, torna a prendere il tuo tè...Stavolta ascoltami." diceva il coinquilino, ma la zia:
"Aspetta, sento che non è vuota."
"Che cosa dici?"
"Non è vuota, ti dico!"
Allora il coinquilino accese l'interruttore e illuminò la mia faccia piena di stupore, coi capelli ritti dallo spavento, e il mio corpo in piedi inerme.
I due stettero per un po' fermi e muti, poi il coinquilino, un bel bruno dai capelli spettinati e un pigiama a pantaloncini verde disse alla zia, una donna anziana quanto il mondo vestita in modo semplice e con l'espressione sicura di sè.
"Ah, mi scusi, lei deve essere la nuova coinquilina." Poi, senza aspettare la mia risposta chiuse la porta, come se niente fosse.
Mentre la zia faceva il giro di tutte le altre stanze recitando le sue formure il ragazzo cercava di distoglierla e di riportarla in cucina.
Io non ero più spaventata, ma un po' divertita dalla scena a cui avevo assistito, nella quale d'altra parte non ero passata per la più squinternata tra tutti loro, o si?
Alzai le serrande e giocherellai con le maniglie dei cassetti, pensando a chi potesse essere quella donna, magari un'antica megera del sud-italia, che continuava a concedere i suoi servizi alle ricche famiglie superstiziose, o magari era veramente sua zia, uscita da un ospedale psichiatrico con qualche rotella in meno.
Ciò che mi tranquillizzava era la cura e l'affetto col quale il giovane sembrava trattarla, senza nemmeno un pizzico di scherno. Voleva dire che era un tipo gentile.
Svuotai la valigia dopo essere sgattaiolata in bagno, le mattonelle di quella stanza erano blu, mentre i muri della mia nitidamente bianchi.
Una volta lavata, vestita e profumata bussai alla porta dietro la quale dovevano essere i due.
Prima di sentire alcun tipo di risposta sentii la signora bisbigliare, non tanto a bassa voce: "Te l'ho detto che sarebbe venuta lei."
"Entri pure", disse lui finalmente, insieme all'esotico "Trasite, trasite" della donna.
Apparve una cucina allegra, con qualche tazza da lavare, con dei vasetti di basilico alla finestra, e un enorme vaso che si vedeva nel terrazzo. A giudicare dalla caraffa di tè quasi vuota non erano alla prima tazzina, e un altro po' d'acqua bolliva in un pentolino.
Sorrisi spontaneamente.
"Scusate se prima vi ho spaventati, è che sono arrivata stanotte.."
"Occupare una stanza non ancora interrogata, che idea..." disse la vecchia.
Chiesi educatamente cosa intendesse e il ragazzo mi fece segno di sedermi, dove c'era già una tazza piena di tè fumante ad aspettarmi. Quando l'aveva versato? Non l'avevo visto, prima.
"Io sono Fabrizio, questa è Irene, mia zia da Palermo. Non è proprio una vera zia, ma è come se lo fosse."
"Io sono Cristina, piacere"
La signora Irene soffiò sul suo te, ridendo sotto i baffi, mentre io ero come congelata dentro gli occhi di Fabrizio e prendendo una sorsata troppo rapida mi scottai.
"La zietta viene a trovarmi a volte, mi dà tanti utili consigli, ed è convinta che le stanze le rivelino segreti, soprattutto quelle vuote. Per la verità non conosco ancora tutti i suoi poteri" disse Fabrizio.
Cristina rise, pensando che fosse una battuta, ma Fabrizio la guardò serio e lei non fece altre domande.
"Bella questa cucina! Anche la camera mi piace, è arredata con mobili di legno."
"Li ho fatti io" disse il coinquilino. "Sono falegname." La frangetta gli coprì all'improvviso gli occhi.
"Oltre a studiare alla Bocconi?" Dissi io, stupita.
Fabrizio si mise a ridere.
"Il falegname lo faccio meglio dello studente."
Sarebbe stata una conversazione normale, se non ci fosse stata la vecchia. Un concentrato di lampi e tuoni uniti ad un sorrisino da gatta paffutella.
Fabrizio se ne rese conto, e disse:
"La zia viene di solito a primavera, preferisce il clima mite, e tutto il resto dell'anno sta in sicilia."
"Anche tu sei siciliano? Ti posso dare del tu?"
Fabrizio tacque qualche secondo, come sempre, poi disse.
"Mi puoi dare del tu. Sì, sono siciliano."
Mi misi a giocherellare con un pezzetto di fil di ferro che c'era sulla tovaglia, imbarazzata.
"Io me ne vado" disse la signora Irene con una voce stridente. "Mi aspettano a San Lorenzo". Si alzò, prese la sua borsa verde e si diresse verso la porta.
Fabrizio con calma posò la tazzina col tè che sembrava non finire mai e la seguì. Io feci altrettanto, più per curiosità che per cortesia.
Zia e nipote acquisiti si abbracciarono e poi io le tesi la mano, "Piacere."
Lei mi tese una bottiglietta con un liquido marrone, dall'odore sembrava liquore al cioccolato.
"Tienilo, ti servirà." Disse, e uscì scendendo le scale, senza darmi il tempo di ringraziarla.
"Grazie" dissi io ad una mosca sul pianerottolo. Poi vidi che Fabrizio se ne era andato, tornai in cucina e lo vidi. La finestra del terrazzo era spalancata, e lui mi invitava a venire vicino.
"Questo è l'angolo più bello della casa." E mi indicò una coppia di piccioni che tubava sul tetto di una casa piena di comignoli, e poi tutti gli altri tetti e poi il campanile di una chiesa che si perdeva in lontananza, e poi la bruma, e poi Milano, la grande cipolla, che fumava come una caraffa di tè.
martedì 19 aprile 2011
domenica 17 aprile 2011
sabato 16 aprile 2011
I pesci di Hida
L'acqua si è seccata come una chewing gum americana, è rimasto solo un piccolo fiotto per far vivere la fantasia dei turisti. Ma un tempo ogni casa aveva il suo bacino, la sua vena, e qualsiasi persona del villaggio che approdasse a casa nostra veniva servita prima di tutto di un'abbondante caraffa. Noi bambini andavamo a riempirla, a gruppetti perché da soli era troppo pesante.
A casa mia si beveva molto, di mattina il succo di prugna freddo, nella pausa di lavoro gli adulti bevevano thè alla mandorla o al gelsomino, e la sera sempre una tazza di acqua pura, che i grandi spesso allungavano col sakè.
Ma il fiume non serviva solo per sopravvivere, ci si poteva navigare, o far navigare i nostri giocattoli di legno o di canna intagliata.
La mamma era diventata specialista nel lavare i panni senza gettare prodotti tossici nel fiume, glielo aveva insegnato il nonno, chimico esperto che aveva studiato a Tokio ed era anche andato in Europa.
Qualche sera ci parlava dell'Europa, delle grandi capitali e dei piccoli paesi come il nostro. Diceva che viaggiare era come ricominciare ogni volta da zero, come ritornare neonato. Ti metti persino a balbettare come un lattante perché non sai la lingua. Il nonno ha studiato tanto, su tanti libri. Ma lui ci ha detto che i libri non sono sufficienti per imparare, ed è per questo che noi gente di Hida avevamo il fiume.
Dal fiume ricevevamo benefici e noi dovevamo rispettarlo. Mia madre a volte la sera pregava rivolta alle acque e mio nonno non era contento. Diceva: "il nostro fiume dà già tutto sè stesso, che cosa gli domandi ancora?".
La mamma diceva che era solo per ringraziarlo ma io sapevo che quando il nonno era malato lei aveva domandato al fiume che non morisse.
Ora quando apro una bottiglia d'acqua mi chiedo che fine ha fatto quel fiume, dove sono le carpe colorate, dov'è la sorgente e dov'è il tempo. Forse è più sicuro chiudere l'acqua in queste bottiglie, forse siamo destinati a bere per sempre distillato di plastica, e a nuotare nelle nostre vasche da bagno.
Il sogno che ho fatto parlava di una famiglia di pesci, preoccupati perché un qualche parente era finito affumicato. Solo che i pesci parlavano e camminavano fuori dall'acqua. All'improvviso è arrivata un'onda gigantesca, gialla, li ha ricoperti tutti e loro sono morti soffocati. Una bambina-pesce riuscì a nuotare, nuotava con tutta la forza recitando delle formule magiche. Allora riapparve la riva e gli alberi di mandorlo, e mia madre che guarda lontano a me che sto sull'altra riva.
Da tempo sono emigrata. Ho una famiglia e adotto una lingua straniera. Ieri alla televisione ho visto il mio paesino che non c'era più, dei nomi di persone disperse scorrevano in sovraimpressione e, nelle poche immagini, delle carpe morte riempivano il fiume. Ho avuto un malore, la bottiglia che avevo in mano è caduta e tutta l'acqua si è versata sul pavimento. Quando mi sono risvegliata ero tutta bagnata stesa sul pavimento, e con le braccia mi misi istintivamente a nuotare, come facevo da bambina.
venerdì 15 aprile 2011
straniera
La stazione del métro che odorava di gabinetto oggi odora di disinfettante alla ciliegia.
Non ci puoi passare se hai già il mal di stomaco. C'è qualcosa nell'aria della place carrée di Les Halles nei giorni di cielo azzurro. Uno penserebbe al mare, ai grandi viali alberati. Ad uno verrebbe voglia di Berlino e della sua Unter den Linden.
Non so perché faccio questi accostamenti. Quanto è lontano il mare.
Ma vado presto a raggiungerlo, dopo l' aspra e vanitosa milano. Devo passare a vedere la mostra di Arcimboldo, credo.
Vorrei scavare della sabbia, dove è più bagnata, a quest'ora di aprile, quando in spiaggia c'è forse qualcuno che suona la chitarra, qualche straniero.
E poi camminare e camminare finché le stelle non sbocciano come una musica di miles davis, finché una festa ricopre la tua pelle fresca, e i battiti del cuore si infittiscono. Le so usare le parole, ma ora ho proprio male allo stomaco.
Non ci puoi passare se hai già il mal di stomaco. C'è qualcosa nell'aria della place carrée di Les Halles nei giorni di cielo azzurro. Uno penserebbe al mare, ai grandi viali alberati. Ad uno verrebbe voglia di Berlino e della sua Unter den Linden.
Non so perché faccio questi accostamenti. Quanto è lontano il mare.
Ma vado presto a raggiungerlo, dopo l' aspra e vanitosa milano. Devo passare a vedere la mostra di Arcimboldo, credo.
Vorrei scavare della sabbia, dove è più bagnata, a quest'ora di aprile, quando in spiaggia c'è forse qualcuno che suona la chitarra, qualche straniero.
E poi camminare e camminare finché le stelle non sbocciano come una musica di miles davis, finché una festa ricopre la tua pelle fresca, e i battiti del cuore si infittiscono. Le so usare le parole, ma ora ho proprio male allo stomaco.
giovedì 14 aprile 2011
Le chant d'Isis, la traditrice
Non, c'est pas vrai, c'est pas si facile que ça. Tu ne m'a pas eue. D'accord je le suivais, d'accord je l'ai pris par la manche.
J'étais contente, il m'a embrassée.
Je ne suis pas auprès de lui comme une chienne, je suis pas genre "je suis ton épagnole, Démétrius!" et tout ça.
Mais, surtout, je ne suis pas allée le chercher parce que j'ai peur de la solitude. Et ce que je nie je le nie. Et la preuve en soit que je suis déjà fiancée. Oui, fiancée. Oui, fais chier, je sais, genre: c'est quoi ce truc? Oui, mais voila, c'est ça.
C'est pas facile, je l'aime. Non, pas lui, pas mon fiancé. Je l'aime, l'autre. Oui, lui. C'est pas mon but dans la vie d’être amoureuse des gens. Je suis censée être une actrice, ou quoi que ce soit.
Non, vraiment moi je ne cherche rien. C'est le tout qui me trouve.
Qu'est-ce que je ferai avec mon fiancé? Je vais être sans pitié, je vais le garder avec moi, jusqu'à ce que le sadisme même va s'éclater. Oui, je suis le pire des monstres.
Mais c'est trop tard, il m'a laissée. Mon fiancé. Il m'a laissée avant même que je puisse me montrer à lui. Je le regarde. Il me regarde. Je le vois. C'est tout. Cupidon ailé m'a donné un dernier soupir de lui-même. La force va se transformer en passé et je ne reconnaîtrais plus cupidon parmi tous les abeilles du monde.
Je le hais. Non, pas celui-là, pas mon ancien fiancé. Pas l'autre non plus. Mais cupidon, oh qu'est-ce que je le hais! Et je suis désespérée.
J'étais contente, il m'a embrassée.
Je ne suis pas auprès de lui comme une chienne, je suis pas genre "je suis ton épagnole, Démétrius!" et tout ça.
Mais, surtout, je ne suis pas allée le chercher parce que j'ai peur de la solitude. Et ce que je nie je le nie. Et la preuve en soit que je suis déjà fiancée. Oui, fiancée. Oui, fais chier, je sais, genre: c'est quoi ce truc? Oui, mais voila, c'est ça.
C'est pas facile, je l'aime. Non, pas lui, pas mon fiancé. Je l'aime, l'autre. Oui, lui. C'est pas mon but dans la vie d’être amoureuse des gens. Je suis censée être une actrice, ou quoi que ce soit.
Non, vraiment moi je ne cherche rien. C'est le tout qui me trouve.
Qu'est-ce que je ferai avec mon fiancé? Je vais être sans pitié, je vais le garder avec moi, jusqu'à ce que le sadisme même va s'éclater. Oui, je suis le pire des monstres.
Mais c'est trop tard, il m'a laissée. Mon fiancé. Il m'a laissée avant même que je puisse me montrer à lui. Je le regarde. Il me regarde. Je le vois. C'est tout. Cupidon ailé m'a donné un dernier soupir de lui-même. La force va se transformer en passé et je ne reconnaîtrais plus cupidon parmi tous les abeilles du monde.
Je le hais. Non, pas celui-là, pas mon ancien fiancé. Pas l'autre non plus. Mais cupidon, oh qu'est-ce que je le hais! Et je suis désespérée.
lunedì 11 aprile 2011
lunedì 4 aprile 2011
guardar nuvole
Guardare le nuvole insieme
Solleticate, di tanto in tanto
Bucherellate, come i biglietti
del diretto per firenze
come i ricordi dell'infanzia
lo sono di boffe e di sberleffe.
E poi come le carezze
che servono a medicare.
Guardatele, ballare!
Ma, soprattutto, senza paura
e con una bella fecondità di propositi
inesorabilmente e sfuggenti alla cattura
cambiare.
Solleticate, di tanto in tanto
Bucherellate, come i biglietti
del diretto per firenze
come i ricordi dell'infanzia
lo sono di boffe e di sberleffe.
E poi come le carezze
che servono a medicare.
Guardatele, ballare!
Ma, soprattutto, senza paura
e con una bella fecondità di propositi
inesorabilmente e sfuggenti alla cattura
cambiare.
domenica 3 aprile 2011
gioco del posto sperduto
Crespino del Lamone
Cremino nel limone
Contino di terrore
Cretino Narratore
Respiro dell'Amore
Gressino col salmone
Crestino dell'attore
Confino del Torpore
Cremino nel limone
Contino di terrore
Cretino Narratore
Respiro dell'Amore
Gressino col salmone
Crestino dell'attore
Confino del Torpore
dalla tecnica alla vita passando per una bomba a mano
Numeri
Numeri primi
Numeri / Reali
Numeri trottanti
Numeri Rimari
Numeri Astrali
Numeri acquattati
Numeri a strati
Numeri crema
Numeri affettati
Numeri innumerevoli
Numeri senzatetto
Numeri come non detto
Numeri ricci
friccìa poipoi
cros me oioi
Tikatikabum
suletica trepampa trepampa
taico se taico se
stintistintistintistinti
trop
rop
op
p
venerdì 1 aprile 2011
triste brezza
Mi alzai per quella giornata, volevo spremerla come un pomodoro maturo. Nel cielo un po' brumoso, mentre la primavera è calda e folle, i resti impercettibili dell'ennesima nube tossica entravano dentro il corpo.
Il posto in cui la vidi, mentre attorniavo la sua panchina con fare incerto e con le mani in tasca, era quello giusto. Le presi la mano e le chiesi di danzare.
Mai persona al mondo fu cosi' leggiadra, cosi' antica, e mai mi era venuta cosi' voglia di avvicinarmi al suo corsetto proibito, per annusarla.
Per finire si distese sul selciato intorno alla fontana, aveva i piedi nudi.
Dentro la mia testa quella specie di svenimento dell' incompiuto, e sentivo uno strano bruciore al naso.
Frugai dentro la tasca dei miei pantaloni e trovai un fazzoletto grigio, senza poesie scritte sopra.
Mi soffiai il naso e dentro il fazzoletto un fiotto rosso esplose come un fulmine. Come tratteggiate le gocce di sangue cadevano sul viso e poi al suolo, e allora mi pulii la bocca e anche dalla bocca usci' del sangue.
Mi appoggiai stremato a terra, come a voler prendere la posizione distesa, ma lei mi prese ancora per danzare di nuovo.
Il suo braccio si appoggio' ad un incavo della mia schiena che non avevo mai visto dal vero, nemmeno in foto. Cercai di fermarla ma era gia' troppo tardi, mi stava strappando un pezzo di carne, sempre continuando a danzare.
Danzammo tanto da poterne sentire la musica, quella musica straziante come una mutilazione, poi ci fermammo ad odorare le margherite.
Il loro polline saliva fino al mio cervello, credo, lei mi parlava senza muovere il volto, come una maschera funeraria.
Volli tornare sui miei passi prima che il suo ballo mi finisse completamente, ma non mi riuscii a discostare e, capendo che era giunta la mia ora, le insegnavo ad uccidermi con gentilezza.
Il suo tono di voce era afoso e non era una brava allieva, ma danzava, mio dio, come danzava...
Credo che non me ne andassi perché ero preso da tutto cio' che di forestiero c'era in lei, di foresto, di buio. Non me ne andavo, no, e per fare cosa?
Avrei più sentito il suono delle margherite che entravano una dentro l'altra?
Ma poi il tempo si esauri' e mia moglie mi ando' a riporre, come tutti gli anni, in quella che era da vent'anni la mia bara.
Il posto in cui la vidi, mentre attorniavo la sua panchina con fare incerto e con le mani in tasca, era quello giusto. Le presi la mano e le chiesi di danzare.
Mai persona al mondo fu cosi' leggiadra, cosi' antica, e mai mi era venuta cosi' voglia di avvicinarmi al suo corsetto proibito, per annusarla.
Per finire si distese sul selciato intorno alla fontana, aveva i piedi nudi.
Dentro la mia testa quella specie di svenimento dell' incompiuto, e sentivo uno strano bruciore al naso.
Frugai dentro la tasca dei miei pantaloni e trovai un fazzoletto grigio, senza poesie scritte sopra.
Mi soffiai il naso e dentro il fazzoletto un fiotto rosso esplose come un fulmine. Come tratteggiate le gocce di sangue cadevano sul viso e poi al suolo, e allora mi pulii la bocca e anche dalla bocca usci' del sangue.
Mi appoggiai stremato a terra, come a voler prendere la posizione distesa, ma lei mi prese ancora per danzare di nuovo.
Il suo braccio si appoggio' ad un incavo della mia schiena che non avevo mai visto dal vero, nemmeno in foto. Cercai di fermarla ma era gia' troppo tardi, mi stava strappando un pezzo di carne, sempre continuando a danzare.
Danzammo tanto da poterne sentire la musica, quella musica straziante come una mutilazione, poi ci fermammo ad odorare le margherite.
Il loro polline saliva fino al mio cervello, credo, lei mi parlava senza muovere il volto, come una maschera funeraria.
Volli tornare sui miei passi prima che il suo ballo mi finisse completamente, ma non mi riuscii a discostare e, capendo che era giunta la mia ora, le insegnavo ad uccidermi con gentilezza.
Il suo tono di voce era afoso e non era una brava allieva, ma danzava, mio dio, come danzava...
Credo che non me ne andassi perché ero preso da tutto cio' che di forestiero c'era in lei, di foresto, di buio. Non me ne andavo, no, e per fare cosa?
Avrei più sentito il suono delle margherite che entravano una dentro l'altra?
Ma poi il tempo si esauri' e mia moglie mi ando' a riporre, come tutti gli anni, in quella che era da vent'anni la mia bara.
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