sabato 26 febbraio 2011

Su Dante, le note, Pascal e qualcos'altro

Spesso rifletto sulla lettura ad alta voce, diversa da quella nella propria testa. Tutte le edizioni ci hanno sempre assillato di note ma trovo spesso che, quando si percepisce una figura, in Dante, per esempio, anche uscendo dalla Storia, dal folklore, dal presente dell'opera, possiamo capire un ammasso di cose, ognuno al suo livello, certo.
Il difetto è che quasi sempre quest'ammasso di cose è, come dice la parola ammasso, così tanto unito in una parola, così tanto riassunto, che non si può dire ordinato, né vicino alla natura e quindi alla nostra sensibilità. è vago ed è ingiusto dire che il vago è poetico. Il poetico non è così vago, ma spesso, come la natura, struttura ogni cosa in sé perfetta, per creare qualcosa di bello nell'insieme.
Un altro difetto è che nessuno percepirà mai quello che tu hai percepito, perché dovresti spiegarglielo con delle parole, ma anche se spiegato, dalla sua visione delle cose non capirebbe. La retorica certo fa sì che la persona con cui si dialoga veda non l'errore nel suo modo di vedere, ma una limitazione, che può essere espansa a piacere.
Ma non è detto che io, essendo uno spirito più sensibile, più fino, come diceva Pascal, possa allargare il pensiero del mio interlocutore come allargo il mio proprio pensiero.
Sarebbe impossibile cambiare l'acqua di un fiume trasportandone un po' da una sorgente all'altra.
Al contrario un curatore che attraverso le note ci costringe in un luogo più limitato spesso ci impedisce la visione d'insieme, per non dire che tormenta la nostra lettura.
Così a scuola siamo sempre stati abituati a questa lettura geometrica, frammentaria, tanto da dire che questa è la lettura umana.
Ma se nella loro testa i poeti concepiscono il tutto non è perché sono sovrumani, ma semplicemente perché il loro non è un pensiero abitudinario, esiste questa unità dell'autore, che non arriva quasi mai al lettore, a causa della lettura. Ma ad alta voce si rischia di collassare questo interessante processo.



In un discorso orale si ha l'impressione di quell'uomo che ha detto tutto e continua ancora a parlare, nel discorso scritto si ha l'impressione che tutto non sia ancora stato detto, che lo scrittore è il protagonista di una novità, il lettore passivo spettatore curioso.
Questa curiosità è la malattia dell'uomo, quella che diceva Pascal: "la maladie principale de l'homme est la curiosité inquiète des choses qu'il ne peut savoir."
Mi viene rabbia quando capisco che il discorso di un bel libro ha termine, mentre una bella conversazione non ha termine se non per stanchezza, e indisposizione fisica.
Il libro di ciascun essere umano dovrebbe essere lungo all'infinito quanto la sua vita, e con abbastanza note per essere infine buttato e superato da quelli che vengono dopo.

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